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Diciassette anni: una pistola giocattolo e una vita rotta

4:30 del mattino. Via Duomo, centralissima e popolare strada di Napoli.

Due giovani, diciassette e diciotto anni, tentano una rapina arma in pugno. Ma è una replica di un’arma vera, un’imitazione che non può sparare. Non un elemento assolutorio, ma un semplice dato di fatto.

Sul posto giunge un’auto dei “falchi”, la squadra speciale della polizia napoletana che batte il territorio tutti i giorni.

Sono tosti, esaltati dall’essere “falchi”, protettori della città e della sua buona borghesia.

Scende il giustiziere e, senza pensarci… Bang! Bang! Bang! Fa fuoco tre volte.

Luigi Caiafa. Diciassette anni. Una pistola giocattolo in mano, resta a terra. Ucciso dalla repressione borghese e dalla squallida morale di uno Stato, che si fa etico e divino.

Padre autoritario e impietoso. Abramo che affonda il coltello nella carne innocente del figlio senza colpa.

Luigi è morto di consumo e di desiderio del superfluo. Dell’abbagliante ideologia spettacolare, da vetrina di lusso metropolitana.

Quella messa su da un Capitale che sollecita l’effimero e poi ti punisce se tu, povero e giovane, provi ad agguantarlo senza averne diritto. Perché il diritto ce l’hanno solo i padroni. I più forti.

Luigi, diciasette anni, era un giovane povero. Come nel film di Ettore Scola, ma senza laurea.

Un garzone di pizzeria uscito dal minorile. Uno di quei “dannati della terra” di cui parlava Franz Fanon.

Un romanzo, quello di Luigi, finito male. Come un giocattolo rotto!

Assassinato da sbirri che spesso agiscono come squadroni della morte. Assolti a priori, perché per questo sguinzagliati da una società immaginaria, erta a giudice implacabile di chi non risponde ai propri canoni. Ai propri codici.

Una sentenza di morte eseguita dai servi in divisa, ma apparentemente firmata da un intero consesso civile, che ormai condanna senza processo chi mina il benessere di pochi, i decori urbani e il quieto vivere della cosiddetta gente perbene.

Un quieto vivere che puzza di putrefazione cimiteriale. Che dà la nausea a chiunque abbia ancora una larva di istinto vitale in corpo.

A questo punto, mi si perdoni una personale digressione.

Qualcuno afferma che chi scrive avrebbe il mito del sottoproletariato e della strada. Forse è così. Anzi, è senz’altro così. Tanti anni di tossicodipendenza hanno inevitabilmente scavato un solco. Intimo e profondo.

Rendendomi fratello di chi ha poco e quel poco deve farsi bastare. Disillusioni messe in una siringa e via. La disperazione scompare. Insieme all’ansia fagocitante del vivere.

Luigi non era un tossico. Ma i suoi occhi mi sembra di averli guardati mille volte. Da dentro. Nei volti di quei giovani proletari e lumpen che ho incrociato nei vicoli di questa città puttana. Che spalanca le cosce fino a farti annegare nel suo odore di peste e di mare.

Li conosco bene quei volti e quegli occhi. Incazzati, ridenti, erotici, mortiferi. Sono gli occhi che ho guardato per anni dentro uno specchio. Maledicendo la vita e amandola. Tutto senza mediazione.

Rubandone aliti e mordendone carne. Tra un buco nella pelle e lo slancio di una pantera, che preda senza ipotizzare la colpa e la pena!

Tante volte ho preso schiaffi dai “falchi”. Tante volte mi sono visto puntare le Beretta dietro la nuca o in faccia. Tante volte ho assaggiato il sapore del ferro in bocca.

Tante volte, come oggi, ho sentito la violenza nascere da dentro. L’istinto primordiale alla libertà.

Il desiderio frustrato di annientare gli aguzzini e i loro mandanti. Dando fuoco alla prateria di croci su cui bruciano i pezzenti, i diversi, i non omolagabili al sistema. Immolati su patiboli da Santa Inquisizione.

Per questo continueremo a lottare!

Ciao Luigi. Che il mare di Napoli ti culli in eterno. A chi ti ha ucciso resta solo l’inferno della propria coscienza. Sempre che ne possegga una.

Vincenzo Morvillo

da contropiano

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