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Detenzione arbitraria e respingimenti illegali. Gli accordi con gli stati di transito cancellano il diritto alla vita.

I sistemi di controllo delle frontiere si sono dimostrati in tensione sempre più forte con i doveri di soccorso e assistenza, come è apparso più evidente nelle isole greche di fronte alla costa turca e nelle acque antistanti la Tripolitania. Nell’opinione pubblica, soprattutto per effetto della campagna diffamatoria nei confronti delle ONG, portata avanti dagli organi di informazione più seguiti, si è quasi annullata la distinzione tra scafisti, intermediari, trafficanti ed organizzazioni non governative indipendenti (o presunte tali) che praticano attività di soccorso in mare e di assistenza a terra. Attività che andrebbero tutelate, e non attaccate, per difendere i diritti fondamentali della persona, a partire dal diritto alla vita.

Oltre al ruolo dei mezzi di informazione e dei social che ne rilanciavano le “campagne del fango”, si registra un generale inasprimento delle pratiche di polizia, soprattutto nei luoghi più esposti alle frontiere esterne, come gli Hotspot, e nelle acque internazionali al limite delle acque territoriali dei paesi terzi, che costituiscono gli stati di transito maggiormente attraversati dalle rotte migratorie, come la Turchia e la Libia. Si rinnovano le missioni militari di contrasto di quella che chiamano “immigrazione illegale” ma nessun paese europeo pensa ad una azione di soccorso europea o alla possibilità di aprire canali legali di ingresso. Non sono neppure bastate le centinaia di morti e dispersi che ci sono stati nelle acque tra la Turchia e la Grecia e le migliaia di cadaveri tra la Libia e l’Italia.

Poco prima che entrasse in vigore l’intesa informale tra Unione Europea e Turchia si è svolta una vera e propria caccia nei confronti degli operatori umanitari che assistevano i migranti, soprattutto siriani, che riuscivano a raggiungere stremati le isole greche dell’Egeo. Molte ONG hanno deciso di abbandonare il campo, o sono state costrette alla fuga con la violenza, gli operatori umanitari indipendenti che sono rimasti lavorano quotidianamente sotto il rischio di finire arrestati dalla polizia o aggrediti dagli estremisti di destra, che anche su quelle isole si sono moltiplicati, in sinergia con le attività di repressione e di contenimento imposte dai governi. La vicenda della nave C Star, di Generazione identitaria,  attualmente in navigazione verso il Mediterraneo centrale per denunciare con la missione Defend Europe le ONG e collaborare con la Guardia costiera libica, è soltanto la punta di un iceberg di movimenti identitari e nazionalisti, appoggiati dai media di destra e da finanziatori occulti, che, malgrado disfunzioni operative e bufale di ogni genere, stanno condizionando la vita dei migranti e degli operatori umanitari nei luoghi di frontiera.

In queste settimane nell’Hotspot di Moria a Lesvos è in corso una protesta di migranti condannati alla deportazione in Turchia, uno di loro sta morendo, potrebbe essere questione di ore. Come scrive la giornalista Flore Murard

Il 24 luglio, la violenza è salita di livello. Alle sei del mattino, numerosi agenti di polizia e militari hanno fatto irruzione nell’hotspot di Moria, svegliando i migranti con violenza e sottoponendoli ad abusi. La polizia aveva una lista di persone da prendere. Circa 50 persone arrestate, per il 90% richiedenti asilo, alcuni con documenti. Tra quelli ancora in stato di detenzione oggi (circa la metà), ci sono numerosi siriani, persino curdi siriani. Alcuni hanno ricevuto solamente il primo diniego e sono in attesa di definizione del ricorso e alcuni il secondo diniego senza nemmeno venirne informati. Uno dei richiedenti asilo arrestati è un giovane curdo-siriano che ha già subito violenze (documentate) in Turchia.

Anche i due profughi detenuti a Moria, Khozin Hussein and Behrooz Arash, in sciopero della fame da 30 giorni, sono potenziali rifugiati: curdi-irakeni. Secondo l’attivista iraniano Arash Hampay, anch’esso a Mitilene, in sciopero della fame in solidarietà con tutti detenuti di Moria, versano in condizioni fisiche molto precarie, uno di loro ha perso 15 kg senza ricevere cure adeguate, e sono privati della possibilità di comunicare con l’esterno.

Una importante denuncia di questa situazione è stata presentata al Parlamento europeo da Barbara Spinelli ed Elly Schlein. Vanno fatti tutti i passi necessari per salvare la vita dell’attivista iraniano Arash H. in sciopero della fame da un mese e lasciato privo di cure mediche adeguate, un ennesimo caso di trattamento inumano e degradante, oltre che un tentativo di respingimento illegale, consumato all’interno di uno degli Hotspot voluti, in Grecia come in Italia, dall’Unione Europea. Chi non si attiverà per salvargli la vita si renderà complice dell’ennesimo omicidio per abbandono.

Ad uccidere, oltre le pratiche disumane applicate ad una detenzione che rimane regolata soltanto dalla discrezionalità di polizia, una cappa di silenzio che sta avvolgendo quanto avviene negli Hotspot greci, dove le proteste sono quotidiane e l’accordo della vergogna tra Unione Europea e Turchia continua a mietere vittime. Soprattutto dopo che Erdogan sta facendo pesare i suoi ricatti verso l’Europa per proseguire la guerra interna contro il popolo curdo e per la definitiva fascistizzazione dello stato turco. Uno stato che non garantisce neppure il rispetto del principio di non respingimento, così come non lo possono garantire le autorità di Tripoli, con le quali si vorrebbero replicare gli accordi già stipulati con la Turchia.

Sembra anche che la giustizia internazionale si stia piegando alle richieste degli stati che non vogliono più avere ostacoli nella imposizione di controlli di polizia, di aree chiuse di detenzione (Hotspot) e di respingimenti collettivi alle frontiere esterne dell’Unione Europea.

Il principio di non refoulement vieta il respingimento di individui vittime di persecuzioni, torture o altri danni gravi alla persona. Questo principio è stato sancito in particolare dalla Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati (articolo 33), ratificata da tutti gli Stati membri dell’UE, e risulta inserito nei Trattati dell’Unione europea (TFUE), nel Regolamento frontiere Schengen del 2006, e nell’articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La Carta ribadisce inoltre la proibizione della tortura e delle pene o dei trattamenti inumani o degradanti nell’articolo 4 e vieta il rimpatrio in paesi in cui vengono praticati tali trattamenti nell’articolo 19, in linea con la giurisprudenza elaborata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) a norma dell’articolo 3 CEDU.

Il principio di non respingimento vieta non solo il rimpatrio di un individuo nel proprio paese di origine, ma anche il trasferimento in altri paesi in cui vi sia il rischio di rimpatrio nel paese di origine (cosiddetto respingimento indiretto). Inoltre, sono vietati i respingimenti in alto mare, anche verso paesi come la Libia e come la Turchia che poi deportano nei paesi di origine. Come chiarito anche dalla Corte EDU, le misure adottate in alto mare, che hanno l’effetto di impedire ai migranti di raggiungere i paesi verso cui partono di respingerli verso lo stato di transito, possono anche violare il divieto di espulsioni collettive ed il divieto di trattamenti inumani o degradanti (Art.3 CEDU).

Malgrado la nettezza e la precettività di queste norme sembra tuttavia che venga esaudita, anche a livello giurisdizionale, la richiesta di una totale impunità per la violazione dei diritti fondamentali della persona, e di salvaguardia per quegli accordi che quei diritti cancellano, come è accaduto in un recente caso nel quale proprio due ricorrenti detenuti in un isola greca impugnavano il provvedimento di respingimento in Turchia adottato in ossequio all’Accordo del 18 marzo 2016 tra Unione Europea e Turchia e della conseguente legge sul diritto di asilo varata in fretta e furia dal Parlamento greco sotto la pressione del Commissario europeo all’immigrazione Avramopoulos.  Si voleva dare così almeno una parvenza di base legale ad una intesa che non ha mai avuto una veste formale di accordo internazionale.

La Corte di Giustizia ha negato poi la possibilità di ricorrere ai visti umanitari previsti dal codice frontiere Schengen per negare qualsiasi possibilità di ingresso legale anche a chi, come i siriani ricorrenti, era in fuga da un paese nel quale la vita delle persone, la loro libertà ed integrità fisica, potevano ritenersi costantemente a rischio. Come ha sottolineato l’Avvocato generale presso la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con un parere che però poi non è stato accolto dalla sentenza adottata dalla Corte, andrebbe riconosciuta a chiunque la possibilità di chiedere un visto per motivi umanitari nell’ambito dell’attuale codice delle fontiere Schengen. Lo stesso Avvocato generale ha ritenuto altresì che, nell’adottare una decisione ai sensi del codice dei visti, le autorità di uno Stato membro danno attuazione al Diritto dell’Unione e sono, pertanto, tenute al rispetto dei diritti garantiti dalla Carta, il cui rispetto si impone a ogni autorità degli Stati membri che agisca nell’ambito del diritto dell’Unione, indipendentemente da qualsiasi criterio di territorialità. Sembrano principi che si dovrebbero affermare pacificamente ma invece sono oggi contraddetti dalla sentenza della Corte di Giustizia che ha così escluso ogni possibilità di canale legale di ingresso in Europa per motivi umanitari ed ha lasciata aperta la possibilità di accordi di respingimento che violano gli stessi principi affermati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ed il divieto di non refoulementi sancito dall’art.33 della Convenzione di Ginevra.

Sono state queste decisioni della Corte di giustizia UE, criticate anche da Amnesty , come le leggi adottate dal Parlamento greco, ricattato dal Consiglio e dalla Commissione Europa, per dare attuazione agli accordi tra Unione Europea e Turchia, che hanno consentito alle autorità di polizia, coordinate in Grecia dagli agenti di Frontex, di praticare respingimenti violenti verso la Turchia, con un numero rilevante di vittime, nascoste all’opinione pubblica. Altre vittime si stanno registrando nei centri di detenzione (Hotspot) presenti nelle isole greche più vicine alla costa turca ( Lesvos e Kos).

Sembra oggi che soltanto con la violazione sistematica del principio di non respingimento e con il ricorso alla detenzione arbitraria si possano contrastare le organizzazioni dei trafficanti e contenere il numero delle persone in fuga anche dai paesi di transito che comunque riescono a raggiungere l’Unione Europea. In realtà gli arrivi dei migranti sono dipesi dalle mutate condizioni geopolitiche dei paesi di origine e transito, da un sistema di corruzione sempre più diffuso, dal degrado ambientale e dall’aggravarsi dei conflitti, più che dal numero degli arresti di polizia allo sbarco.

Non si è riusciti a smantellare nessuna delle organizzazioni di trafficanti che gestiscono i passaggi verso l’Europa, l’unica arma dissuasiva è stata individuata nella politica dei respingimenti collettivi e della detenzione arbitraria nei cd. Hotspot, con la conseguente morte in mare o con l’internamento nei campi di migliaia di persone costrette ad una fuga senza alternative legali. I tentativi di criminalizzare le ONG portati avanti da Minniti e dalle destre europee non è nuovo, anche se oggi si inserisce in un contesto ancora più preoccupante di intervento militare in un paese terzo, con conseguenze che potrebbero essere devastanti.

 A partire dal 2004, con il caso della nave tedesca Cap Anamur, si è tentato di criminalizzare l’intervento umanitario. Si è arrivati al sequestro di una nave umanitaria che aveva soccorso e salvato naufraghi in alto mare. Sono stati arrestati e poi assolti pescatori colpevoli soltanto di avere salvato vite umane. Il Tribunale di Agrigento nell’udienza del 7 ottobre 2009 ha pronunciato una sentenza di assoluzione con formula piena “perché il fatto non costituisce reato” nei confronti di Elias Bierdel, capomissione, del comandante della nave Cap Anamur, e del suo secondo, imputati di agevolazione dell’ingresso di clandestini dopo avere soccorso, nel giugno 2004, 37 naufraghi alla deriva cento miglia a sud di Lampedusa.

Oggi il ministro Minniti, all’indomani della spaccatura prodotta tra le ONG dopo un vero e proprio ricatto sull’adozione ( che a livello europeo si voleva concordata !) di un Codice di Condotta per gli interventi in operazioni SAR (ricerca e salvataggio) nelle acque antistanti le coste libiche, minaccia addirittura di abbandono in condizioni di “insicurezza” chi si è rifiutato di asservirsi alle pratiche di polizia ed ai respingimenti verso la Libia. Respingimenti indiretti eseguiti tramite la Guardia costiera di tripoli coordinata da unità militari italiane e con il supporto della Guardia di finanza già presente nel porto di Tripoli.  Respingimenti che sono previsti dal codice quando si richiama l’obbligo di non entrare in acque libiche e di collaborare con le autorità di Tripoli, respingimenti camiffati da missione militare all’estero, che saranno codificati nel decreto che si sta imponendo al Parlamento sull’intervento militare nelle acque libiche. Oltre al già sperimentato corollario di misure amministrative di controllo nei porti di sbarco, che rallenteranno i soccorsi ed avranno un costo sempre più elevato in termini di vite umane.

Chi effettua salvataggio a mare non commette nessun reato. Il messaggio chiaro che viene della sentenza Cap Anamur, è che gli stati devono rispettare non solo il diritto internazionale del mare, che vieta anche i respingimenti collettivi, come ha ricordato anche la Condanna dell’Italia sul caso Hirsi da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, ed il divieto di refoulement affermato dalla Convenzione di Ginevra, ma anche il diritto penale interno che sanziona l’omissione di soccorso, prevede lo stato di necessità ma esclude qualsiasi penalizzazione per l’assistenza umanitaria fornita senza scopo di lucro. La sentenza adottata dal Tribunale di Agrigento ha costituito una importante affermazione dello stato di diritto di fronte al ricorrente tentativo delle autorità amministrative italiane di configurare “a posteriori” una fattispecie di responsabilità penale, in violazione del principio di legalità e della responsabilità personale sui quali si basa nel nostro sistema il diritto penale. Un tentativo che si sta dispiegando ancora oggi con il tentativo di imporre un Codice di condotta alle ONG che operano sotto il coordinamento del Centrale operativa del Corpo della Guardia Costiera (IMRCC). Le regole di comportamento per le ONG esistono già, occorrono più mezzi di soccorso che garantiscano interventi più immediati, esattamente l’opposto di quello che si sta facendo, procedendo nella direzione degli accordi di polizia per rafforzare la Guardia costiera di Tripoli e favorire il blocco in mare e il successivo internamento dei migranti nei campi di concentramento libici. Dopo le ONG il prossimo obiettivo di Minniti e del governo sarà l’abbattimento di qualsiasi autonomia decisionale del Comando centrale della Guardia Costiera a favore degli uomini del Ministero dell’interno. Le avvisaglie si sono già avvertite. E poi potrebbe essere soltanto guerra, in territorio libico ed in mare, affidata ai comandi della Marina militare.

Ma la guerra di Libia potrebbe avere anche un suo fronte interno. Se oggi si dovessero verificare iniziative di carattere penale nei confronti di operatori di navi umanitarie, o di persone che prestano assistenza gratuita a terra dopo lo sbarco, come quelle che sono state adottate nelle isole dell’Egeo nei mesi scorsi, la conseguenza immediata potrebbe essere la sospensione delle missioni di ricerca e salvataggio, con un aumento consistente di morti e dispersi, a fronte della smobilitazione delle missioni europee Frontex Triton ed Eunavfor Med.

Le condizioni di conflitto sulle coste libiche determinano una condizione molto simile a quella che si è determinata da tempo nelle zone interne di molte regioni africane dove gli interventi umanitari devono essere messi in sicurezza da una copertura militare e diventano quindi “embedded”, dovendo rispondere a esigenze di controllo del territorio e di difesa militare che sono del tutto estranee alla normale attività di una organizzazione non governativa. E pensare che per pagare la Guardia costiera di Tripoli si sta ricorrendo ai fondi per la coperazione internazionale.  Il contrasto dei trafficanti e la repressione di quella che viene definita come “immigrazione illegale” non deve ridurre la capacità operativa delle organizzazioni umanitarie.

Minniti è riuscito a scalfire il fronte compatto delle ONG, e qualcuno si è rimangiato le posizioni assunte ancora qualche mese fa.

Occorre evitare che la militarizzazione degli interventi di ricerca e salvataggio imposta anche alle navi umanitarie che sono rimaste a soccorrere migliaia di persone nelle acque internazionali antistanti la costa libica, si possa tradurre in misure di carattere penale nei confronti di operatori umantari che nei loro interventi perseguono esclusive finalità di soccorso ed operano in una situazione di perenne stato di necessità, determinato dal parziale ritiro delle missioni europee di Eunavfor Med e di Frontex, alle quali pure, con il nuovo Regolamento Frontex n.656 del 2014, si erano affidati importanti compiti di ricerca e salvataggio.

Con i respingimenti verso la Libia affidati al coordinamento tra Guardia di finanza, Marina militare e sedicente Guardia costiera libica, si vuole forsearrivare ad un incidente, ad un caso di respingimento collettivo che determini un ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo e così ad un superamento della giurisprudenza europea fondata sulla condanna dell’Italia nei casi Hirsi, nel 2012, e Sharifi, nel 2014. Rispetto a questo tentativo occorre praticare forme di resistenza diffuse ricorrendo anche ai giudici civili e penali interni, e aumentando i collegamenti tra associazioni e migranti per dare più forza ai migranti. Senza esporre inutilmente persone già assai vulnerabili, e spesso prive di informazioni sui passi dei legali che li difendono. Ogni tentativo di protagonismo non potrà che risultare deleterio in un momento nel quale si sta andando verso il superamento dello Stato di diritto, sul piano interno ed internazionale.

Quanto sta avvenendo tra le isole greche e la Turchia, potrebbe ripetersi domani tra la Libia e le isole italiane, come si sta aggravando ovunque la situazione negli Hotspot ormai rimasti privi di basi legali e luoghi chiusi di selezione e di preparazione di vere e proprie deportazioni. Sembra che neppure la giurisdizione interna ed internazionale riesca a garantire l’effettivo riconoscimento dei diritti affermati nelle Convenzioni internazionali. Come se i giudici risentissero dell’ondata di populismo e di xenofobia che sta travolgendo l’Europa e ne tengano in qualche modo conto nelle loro decisioni. Le politiche di respingimento e di internamento stanno così prendendo il sopravvento sul rispetto dei diritti umani.

Il confine tra chi collabora con queste politiche nascondendosi dietro finalità umanitarie e chi si oppone, e sostiene pratiche di resistenza, sarà sempre più netto. Evidentemente non tutte le ONG sono uguali e non ci si può fidare di chi decide di collaborare con un governo che stringe patti con la Guardia costiera di Tripoli e fa imbarcare sulle navi umanitarie agenti di polizia con la loro dotazione di armi. Perché la disumanità della frontiera e la discrezionalità di polizia, con le conseguenti operazioni di intervento militare e di arresto indiscriminato, non prevalgano sul diritto alla vita e sul rispetto dei diritti fondamentali della persona.

Fulvio Vassallo Paleologo

da Associazione Diritti e Frontiere – ADIF

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