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Criminalizzare l’asilo

Con il clamoroso caso del falegname eritreo condannato a 5 anni come trafficante di migranti e tenuto tre anni in carcere per “scambio di persona” torna in appello una vicenda esemplare. Nel silenzio dei mezzi di comunicazione, si rischia infatti di ripetere lo stesso percorso di ribaltamento dei fatti e delle responsabilità personali verificatosi nel procedimento in primo grado, allo scopo di salvaguardare la logica degli accordi di polizia con paesi terzi che non rispettano i diritti umani e di sanzionare il diritto di fuga di chi è oggetto di persecuzione ma, non trovando vie legali di ingresso in Europa, è costretto a rivolgersi ai trafficanti per salvare la propria vita. Si tende dunque a criminalizzare ancora una volta il diritto di asilo e quello di raggiungere una frontiera, anche irregolarmente, per far valere una istanza di protezione, così come prevede la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. che esclude la sanzione penale dell’ingresso irregolare di chi entra nel territorio dello Stato per chiedere protezione

1. È tornato in appello il 6 ottobre a Palermo il processo contro Behre Medhanie Tasmafarian, il profugo eritreo arrestato a Karthoum nel 2016 e vittima di un clamoroso scambio di persona con il trafficante internazionale, pure lui eritreo, Mered Medhanie Yedhego, un errore delle autorità di polizia (sudanesi, italiane ed inglesi) che lo hanno arrestato nel 2016, che gli è costato anni di carcerazione preventiva. La Procura di Palermo ha infatti appellato la sentenza del Tribunale che riconosceva lo scambio di persona, pur condannando Behre, che nel 2019 ha ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra, per avere fatto arrivare in Italia alcuni suoi familiari.

Secondo la Procura lo scambio di persona riconosciuto dal tribunale non c’è mai stato e quel falegname eritreo arrestato in Sudan con una spettacolare operazione congiunta di polizia, ampiamente pubblicizzata sui media, ai tempi della collaborazione delle autorità italiane ed inglesi con le forze di sicurezza del dittatore Bashir, era davvero un trafficante internazionale.

Le prove raccolte dopo l’arresto, durante il processo, avevano comunque convinto i giudici di primo grado, malgrado avessero accertato lo scambio di persona, che l’imputato si sarebbe reso colpevole di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per avere fatto arrivare in Italia alcuni suoi parenti in fuga dal Sudan. Adesso si torna a discutere su un ricorso in appello dell’imputato, contro la condanna, ma soprattutto sorprende il ricorso della Procura che, dopo quattro anni di processo in tribunale ed una serie interminabile di udienze insiste sullo scambio di persona, forse per “salvare” le indagini di polizia che hanno portato all’arresto del falegname eritreo a Khartoum e che sono rimaste alla base dell’impostazione dell’accusa, poi integrata da intercettazioni telefoniche di dubbia legittimità ed attendibilità. Ma le conseguenze dello scambio di persona non si fermano qui. Si tende anche a criminalizzare ancora una volta il diritto di asilo ed il diritto di raggiungere una frontiera, anche irregolarmente, per fare valere una istanza di protezione, come prevede la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. che esclude la sanzione penale dell’ingresso irregolare di chi entra nel territorio dello Stato per chiedere protezione.

Il vero trafficante, Mered Medhanie Yedhego definito “Il Generale” intanto rimane libero e nessuno lo cerca, perché secondo la procura di Palermo sarebbe sotto processo a Palermo. Secondo quanto riferiva AfricaExpress già anni fa ,”un diplomatico occidentale basato a Khartoum parlando con Africa Express ha avanzato un’ipotesi piuttosto sconcertante: che a giocare un brutto scherzo ai servizi segreti italiani siano stati i loro colleghi sudanesi. Insomma li hanno presi in giro facendogli credere che il trafficante vero, già individuato dai nostri servizi, fosse il poveraccio fatto arrestare e estradare”.

Si tratta di un processo molto seguito dalla stampa internazionale, che è stato richiamato anche della vicenda delle intercettazioni conservate irregolarmente nel procedimento IUVENTA ancora in corso a Trapani. Avvocati e giornalisti che si sono occupati del caso Behre Medhanie Tasmafarian, sono stati intercettati, a più riprese nell’ambito delle indagini condotte dalla polizia giudiziaria su delega della procura di Trapani,, senza che dalle loro conversazioni emergesse nulla di rilevante per qualsiasi procedimento penale, e malgrado la inutilità di queste intercettazioni, che stanno ritardando la udienza preliminare del procedimento IUVENTA per la necessità del doveroso stralcio, sono state inserite nei fascicoli processuali e non distrutte come prevede la legge. Evidentemente la ricerca di basi probatorie certe per giustificare l’arresto del falegname eritreo non si è mai fermata, anche durante lo svolgimento del procedimento penale a Palermo e addirittura è finita dentro procedimenti penali diversi, accomunati dalla medesima logica di criminalizzazione dei profughi e di chi prestava loro soccorso in mare e assistenza a terra.

A Palermo si cerca di criminalizzare chi ha esercitato il diritto di fuga ed ha aiutato propri familiari a sottrarsi ad una grave persecuzione, a Trapani si continua a mantenere dal 2017 sotto la spada di Damocle di un processo penale uno sparuto gruppo di soccorritori che dal 2016 al 2017 aveva salvato più di diecimila persone dagli abusi inflitti dai libici e dal rischio di naufragio. Attività che allora si svolgevano sotto il coordinamento della Guardia costiera italiana.

2. Su questo processo che continua basandosi ancora su uno scambio di persona occorre tenere alta la memoria e la vigilanza, perché nel silenzio dei mezzi di comunicazione si rischia di ripetere in appello lo stesso percorso di ribaltamento dei fatti e delle responsabilità personali, tentativo al quale abbiamo già assistito nel procedimento in primo grado, allo scopo di salvaguardare la logica degli accordi di polizia con paesi terzi che non rispettano i diritti umani e di sanzionare il diritto di fuga di chi è oggetto di persecuzione ma che non trova vie legali di ingresso in Europa e dunque è costretto a rivolgersi ai trafficanti per salvare la vita. Si cerca di fare dimenticare che in Sudan nel 2016 gli eritrei erano oggetto di una campagna di arresti e deportazioni per effetto dei nuovi accordi tra il governo di Khartoum e la feroce dittatura eritrea. Che ancora oggi rimane al centro della crisi umanitaria nel Tigray, una crisi nascosta come la persecuzione subita dagli eritrei che erano fuggiti in Sudan e vi risiedevano legalmente come rifugiati nel 2016.

Nel mese di agosto 2016 l’Italia concludeva con il Sudan un Memorandum d’intesa sottoscritto dal dittatore Bashir, indagato dal Tribunale penale internazionale per crimini contro l’umanità. In quello stesso periodo tra la polizia sudanese ed il ministero dell’interno italiano si stringevano legami sempre più forti, nel più totale silenzio della stampa italiana. Qualche mese dopo, nell’agosto del 2016,  la collaborazione con le autorità sudanesi permetteva il rimpatrio forzato collettivo di alcune decine di migranti provenienti dal Sudan, bloccati a Ventimiglia, deportati nell’Hotspot di Taranto, e poi, altri a Torino, infine rimpatriati a Khartoum.

Secondo quanto rilevato nel 2019 dal Relatore speciale delle Nazioni Unite per l’Eritrea, malgrado l’avvio del processo di pace con l’Etiopia, le violazioni dei diritti umani continuano a caratterizzare il regime di Afewerky che sta portando avanti una intensa attività di politica estera con i paesi confinanti ( Etiopia e Sudan), senza però interrompere le persecuzioni a danno degli oppositori, ed in genere contro tutti coloro che si sono sottratti alla leva obbligatoria. Una politica estera basata sullo sbarramento delle frontiere e sul tentativo di riprendere quelli che sono riusciti a fuggire all’estero. Un ricorso sistematico alla carcerazione a tempo indeterminato ed alla tortura come sistema di governo. L’Eritrea rimane una gabbia impenetrabile per coloro che operano a livello internazionale come difensori dei diritti umani.

La Corte di Giustizia dell’Unione europea che ha sede a Lussemburgo, con una decisione che fa stato anche all’interno dell’ordinamento italiano, e che le autorità di polizia sono tenute a rispettare, premesso che il diritto dell’Unione garantisce una protezione più ampia di quella prevista dalla Convenzione di Ginevra, ha deciso che “il diritto alla protezione non può mai decadere del tutto, anche in presenza di fatti gravi, se il migrante rischia la vita o la persecuzione una volta rimandato nello stato di origine”.

Secondo la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ” fintanto che il cittadino di un paese extra-UE o un apolide abbia un fondato timore di essere perseguitato nel suo paese di origine o di residenza, questa persona dev’essere qualificata come rifugiato ai sensi della direttiva e della Convenzione di Ginevra e ciò indipendentemente dal fatto che lo status di rifugiato ai sensi della direttiva le sia stato formalmente riconosciuto.

3. E’ questo il contesto che non si è voluto considerare nel processo di primo grado, con il rifiuto di ascoltare testimoni qualificati che avrebbero potuto mettere in crisi le ricostruzioni contraddittorie addotte dai testimoni dell’accusa. Adesso si ritorna a rilanciare la tesi che ha portato allo scambio di persona, anche se una Commissione territoriale, a Siracusa, nel riconoscere lo stato di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951 al signor Behre Medhanie Tasmafarian, ne ha accertato l’identità con documenti riconosciuti dalle Nazioni Unte che certificano dunque non trattarsi del trafficante ricercato dalla Procura di Palermo. A chi può servire una condanna a tutti i costi?

Non sappiamo se sarà possibile restituire in questo processo penale giustizia a chi ha subito un arresto illegittimo ed anni di carcerazione preventiva, sotto il peso di accuse gravissime che nella maggior parte sono già cadute con la sentenza di primo grado. Possiamo solo impegnarci a non fare dimenticare quanto avviene dentro e fuori questo processo, in un momento in cui, alla crisi più ampia della giustizia penale, si stanno sommando una serie di provvedimenti che nel contrasto dell’immigrazione irregolare (law enforcement) sembrano codificare il principio che “il fine giustifica i mezzi”, un principio ben lontano dallo Stato di diritto, dall’ordinamento positivo e dalle garanzie di difesa previste dal Codice penale, dalla Costituzione e dalla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo.

Fulvio Vassallo Paleologo

da Adif

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