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Così parlò il grande inquisitore

Ama da sempre i dettagli. È un amore assoluto, che richiede una vita di spasmodica applicazione alla causa. Pignolissimo, è nemico giurato dei perplessi, ma più di loro detesta gli altri pignoli, che gli offuscano quel sentimento del rimanersene a godere dell’esistenza svelata delle piccole cose. Si tiene ben lontano da chiunque, come chi ha spazio per una passione soltanto e sente quanto sia fragilmente fondata quella sua via esclusiva di accesso al mondo.

E la protegge, e nel proteggerla vi aggiunge un particolare ogni giorno, e a ciascuna aggiunta gli pare di darle un poco di più di fondamento. Così si è scelto il mestiere del giornalista, che ha inteso come il modo più elegante di custodire i suoi archivi, dargli la più larga pubblicità possibile e insieme guadagnarci il pane. Come inizia la sua carriera, comincia anche a tenere dei dossier nominativi sui politici. Ne ricerca le dichiarazioni, le segue giorno dopo giorno, le conserva.

E poi aspetta la contraddizione. Il gusto della scoperta delle prime incoerenze lo rende impaziente. Vuole pescare le bugie dei potenti. Beccarne le incongruenze. Coglierli in fallo. A furia di stare all’erta dei possibili raggiri, ne vede più di quel che trova e incomincia a sospettare la corruzione più dell’omissione, il peccato più dell’errore. A rischio e pericolo altrui, allena la memoria sulle cronache giudiziarie.

Gli interessano i fatti, solo i fatti, nient’altro che i fatti. Di evidenza in evidenza, si fa l’idea che la verità sia una soltanto. Chi non la riconosce, ha qualcosa da nascondere. Sempre più abbacinato dall’indignazione, non c’è reato così lieve da non suscitare una sua denuncia e non c’è avversario che non meriti almeno un insulto infilato nell’editoriale per l’indomani. Coltiva le sue forze di scrittore saggiandole su riferimenti culturali che vanno da Totò a Montanelli. Certo non gli mancano le occasioni di trovare impuniti tra le schiere dei potenti che voleva castigare, ma la postura del giustiziere è difficile da dismettere, ormai se la lira dietro chiunque condanni. E il contagio dalle persone si trasmette fatalmente all’ambiente.

L’Italia in cui vive è una nazione predata. “I nostri guai derivano dal fatto che abbiamo due bande che si fanno chiamare destra e sinistra e che per ragioni affaristiche e di convenienza si sono impadronite del Paese e se lo sono mangiato, proprio a colazione, pranzo e cena, lasciandoci soltanto gli ossicini e le briciole”. Sempre più puntiglioso e superficiale su ogni aspetto della vita politica nazionale, giurerebbe che si può contare su un solo uomo che sia capace di snidare e insieme sottrarsi a questo contagio di ladrocinio: lui stesso. Marco Travaglio in persona.

Quando, alla vigilia della campagna elettorale del 2018, il Partito Democratico rimproverò a Travaglio l’uso disinvolto e sventato della formula “sciogliere con l’acido”, ne era evidente la forzatura polemica. Ma la difesa fatta a proposito del ricorso a quelle parole non fu efficace: la scelta non poteva giustificarsi come una metafora ardita, un’immagine forte o un paradosso linguistico. Leggiamo quella frase: “La legislatura che sta per essere sciolta (si spera nell’acido) è stata una delle peggiori della storia repubblicana”.

È ovvio, almeno per noi, che Travaglio non auguri a nessuno di venire sciolto nell’acido. Figuriamoci. Ma perché quella frase orribile è apparsa così immediatamente nuda, priva del filtro dell’iperbole che la astraesse da qualunque rapporto con la realtà dei cattivi pensieri e dei desideri indicibili? Perché, per un effetto paradossale del linguaggio immaginifico, appare più realistico ciò che più sfida la realtà.

Ma se questo accade, nel caso specifico, si deve al fatto che nella scrittura e nell’oratoria di Travaglio, di tanti articoli del Fatto Quotidiano, del Movimento 5 Stelle e di tutta la subcultura loro correlata emergono due costanti, due tic, due veri e propri disturbi del linguaggio. Il primo: un vocabolario agonistico e aggressivo, militarizzato e bellico, dove ogni confronto porta a una resa dei conti.

Dove la sconfitta e la vittoria sono, in tutti i campi, un gioco a somma zero. Il secondo: un’idea di democrazia e di giustizia molto – come dire? – violenta, dove le sole virtù apprezzate si basano sulla forza (certo, democratica), sulla coercizione (certo, legale), sulla repressione (certo, governata). L’intera rappresentazione sociale, i suoi attori, le reti di relazioni, le forme di comunicazione, i prodotti culturali, tutto è descritto a tinte forti e a tratti ben marcati. Tutto è pronunciato con toni vibranti, si affida a gesti robusti, a conflitti brutali e a una lunga sequenza di categorie e procedure simil-giudiziarie: imputazioni, chiamate in causa, colpe, responsabilità, prove, indizi, condanne, giudizi, sentenze, sanzioni, pene.

Nel ritmo parossistico di una messa in stato d’accusa generalizzata, si alza il volume e si inaspriscono le pene. Si pubblicano editti e si annunciano misure repressive. E si agitano i castighi come corpi contundenti. Se non come strumento di purificazione, di emancipazione dal male, di lavacro. Più la pena è pena, più è capace di dare sofferenza e afflizione, più sarà in grado di svolgere una funzione salvifica.

In questa esasperata rappresentazione penitenziaria, le fantasie punitive e le paranoie vendicative, in un quadro alterato e deformato da diffuse patologie sociali, possono arrivare a suggerire associazioni mentali che assegnino all’acido la funzione svolta dal fuoco nei roghi e nelle pire. Cosa c’entra tutto ciò con Travaglio e con le sue responsabilità culturali? Nulla ovviamente, se non per il contributo da lui dato alla creazione di un clima.

Un clima in cui l’esecuzione della pena non ne prevede la sospensione; il rigore rifiuta la clemenza; la certezza respinge l’indulgenza; la severità disprezza la mitezza. In quell’atmosfera segnata dalla richiesta di “più condanne” e “più carcere”, non c’è punizione che sembri eccessiva se considerata meritata. Ecco la trappola semantica in cui si è cacciato Travaglio.

L’andamento ordinario della sua scrittura manifesta quella componente violenta. La stessa di larga parte degli articoli del Fatto e di molti post dei militanti ed elettori del Movimento 5 Stelle, come su un altro versante il linguaggio della Lega e dell’arcipelago dei gruppi che guardano a essa. Va ribadito ancora una volta: non è solo e non è tanto il potenziale di minaccia che contiene, bensì il tono e il colore ferrigno e cruento del vocabolario utilizzato.

E ciò avviene come inavvertitamente, a tal punto quelle parole si sono andate via via corazzando, diventando sempre più combattive, perdendo la distinzione tra descrizione della realtà e sua traduzione in immagini, metafore, iperboli. La realtà stessa diventa tutta un’iperbole. Prevale una lettura sempre visionaria del reale. Una sorta di mitologia della cronaca. In questo linguaggio gonfio e traslato, l’acido non risulta così fuori luogo.

Luigi Manconi e Federica Graziani

da La Repubblica

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