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Colleferro: Da che cosa nasce il feroce omicidio di Willy?

4 persone sono state arrestate per l’omicidio del 21enne Willy Monteiro, picchiato a morte nella notte tra sabato e domenica a Colleferro, vicino Roma, per aver difeso un amico. Si tratta di ragazzi della vicina Artena tra i 22 e i 26 anni. Sono accusati di omicidio preterintenzionale in concorso. Willy, un 21enne originario di CapoVerde, di corporatura esile, era intervenuto per aiutare un amico, aggredito dai quattro, più vecchi di lui e almeno due dei quali, i fratelli Bianchi, esperti di arti marziali: più che una rissa, è stato un vero e proprio pestaggio. Secondo gli amici di Willy, erano almeno due anni che il gruppo di picchiatori infastidiva e aggrediva altri ragazzi.

Cosa c’è alla base di questo feroce atto di violenza, da dove nasce? L’abbiamo chiesto a Valerio Renzi giornalista di Fanpage.it che si sta occupando del pestaggio Ascolta o scarica  e Guido Caldiron giornalista del Manifesto e studioso delle nuove destre e delle sottoculture giovanili Ascolta o scarica

da Radio Onda d’Urto

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A riguardo l’omicidio di Willy sui social abbondano commenti,  anche di tanti di sinistra, che con un linguaggio salviniano  augurano agli assassini di “marcire in carcere”, o “la pena di morte”, di “essere seviziati in galera”. Sarà ma per noi il carcere non è mai la risposta. La risposta la cerchiamo sempre nella domanda sul come quattro ragazzi di 20 anni arrivino ad essere così, quale sottocultura abbia influito. E, di conseguenza, su quali sono le nostre responsabilità collettive. A tal riguardo pubblichiamo degli interventi che crediamo siano utili per una riflessione collettiva
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Omicidio di Colleferro, se la banalità del male è dietro casa

Tra sabato e domenica Willy Monteiro Duarte è stato pestato a morte. I fratelli Gabriele e Marco Bianchi, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli sono stati arrestati in flagranza con l’accusa di omicidio preterintenzionale. Vengono tutti dalla vicina cittadina di Artena

Artena, provincia di Roma.

Due immagini mediatiche contrapposte: da una parte i tanti servizi realizzati negli ultimi anni da varie televisioni nazionali e internazionali sulla “città a passo di mulo”, “il tranquillo borgo non carreggiabile più grande d’Europa dove puoi dormire tranquillo”; dall’altra un centro che nelle ultime ore viene dipinto come coacervo di malavita e di criminalità che aggredisce senza riserve.

La città dove si può vivere fuori dalla modernità e dal rumore delle metropoli è la rappresentazione dai toni idilliaci che volevano far passare amministratori e gruppi folcloristici locali. All’opposto, invece, c’è l’immagine diffusa in queste ore di un luogo in preda a banditi, spacciatori, picchiatori con case e auto di lusso. Artena vista come regno del caos e del disordine morale dove non si può vivere e da dove partono spaccio e raid punitivi.

La realtà di Artena, però, cancella entrambe le immagini mediatiche a cui stiamo assistendo. Ridurre tutto a bene o male, bianco o nero porta a semplificare una faccenda assai più complessa che potrebbe e dovrebbe essere affrontata come merita, analizzando punto su punto le questioni culturali che sono dietro a una deriva sociale di questa portata.

Artena come molte delle realtà di provincia vive una trasformazione politico-sociale che parte dalla fine dei grandi sistemi identitari e ideologici, travolgendo quanto di buono si era riusciti a costruire in decenni di Prima Repubblica.

Per una buona fetta del secondo dopoguerra l’influenza dei partiti politici e del Partito Comunista che ha governato per tanti anni la città si è fatta sentire in modo deciso. Sezioni, circoli ricreativi, feste popolari hanno accompagnato tutti gli anni Settanta e Ottanta. La fine dell’egemonia del Pci e la crisi della sua classe dirigente hanno prodotto ad Artena, tra le varie cose, un grande vuoto politico e sociale.

La criminalità spesso si lega alla politica e a settori economici imprenditoriali. Piccole e medie imprese legate all’edilizia, spesso create da ex esponenti criminali tornati alla vita civile, vicine a questo o quel gruppo economico, sono state il corollario sia dell’attività politica dei partiti, anche di ala radicale o riformista.

Dagli anni Novanta in poi sempre è stato più evidente lo scollamento tra quel che restava del sistema dei partiti, soprattutto di quelli progressisti, e la popolazione, aprendo la strada a nuovi modelli sociali. Denaro veloce, una vita dinamica, auto di lusso, attività di ristorazione e ditte intestate a terzi erano il frutto di questi cambiamenti. Gli anni Duemila hanno poi consacrato il modello.

Quel che rimane della città di Artena, oggigiorno, è il risultato di tutte queste dinamiche sociali tendenti sempre più verso una spiccata chiusura individualista e conformista che ha portato il cittadino medio a disinteressarsi della vita pubblica. Una città dormitorio in cui scarseggiano eventi di grande portata. Un circolo Arci con due sedi (di cui una concessa dal Comune) e la parrocchia sempre aperti. Briciole di quel poco che resta delle strutture di massa di una volta. Attorno il deserto. Nessuna sezione di partito con attività volte al sociale o un riguardo verso chi ha bisogno di attenzione ma solo politici e consiglieri affamati di voti con seguiti clientelari a carattere personale e una politica regionale che ne avalla il modus operandi, usandoli di tanto in tanto per raccogliere preferenze utili al candidato di turno.

La lunga coda di questo fenomeno produce molti spacciatori, molti consumatori (di tutte le generazioni sia gli uni che gli altri), un discreto abbandono scolastico, una difficoltà per gli enti del terzo settore di avere un ruolo attivo (perché fare un tirocinio, uno stage formativo, o un primo lavoro subordinato se posso guadagnare di più gestendo un piccolo giro di spaccio?) ma anche una rete attiva di solidarietà che ha funzionato nel momento del lockdown e che tra i servizi sociali del Comune conta alcuni assistenti sociali attivi e vari attivisti che hanno cercato di non lasciare nessuno indietro. Giovani che subiscono il fascino del denaro veloce da una parte e altri che non ci stanno e tentano di reagire a questo clima stagnante. Famiglie che vivono di spaccio e altre di lavoratori che aspirano a una città con una qualità della vita diversa per loro e i loro figli.

Non esistono comunità felici, non sono mai esistite forse. I territori del nostro comprensorio hanno più o meno le stesse problematiche e i fattori globali di alcuni di questi fenomeni non aiutano.

La scomparsa del dibattito sui giovani, l’incapacità di fare un discorso sulle droghe che esca dalla retorica  repressione-carcere-repressione lasciano con il cerino in mano chi i territori li vive.

Un ragazzo è morto dietro la caserma dei carabinieri di Colleferro. Chi ha ucciso non era un mostro o una bestia, ma qualcuno con cui in tanti avranno preso un caffè al bar, scambiato parole, ecc. La banalità del male è dietro l’angolo nella provincia fatta di centri commerciali, aree di sosta e poli della logistica avanzata. Loro nel campo delle scelte possibili dell’esistenza hanno preso quella della criminalità odierna. Questo ci interroga come forze sociali sul nostro ruolo, la politica sul suo, le forze dell’ordine sul loro. Un ragazzo è morto, è anche colpa nostra.

Mino Massimei – Presidente dell’Arci “Montefiorino 93” di Artena

da DINAMOpress

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Quei balordi cretini ci somigliano

Le povere vittime di questi miseri assassini, sono figli e figlie nostre, ma il problema è che anche loro, i “balordi”, purtroppo lo sono. Anzi quei balordi lo sono ancora di più delle vittime, perché a quasi tutti noi piacciono i vincenti, i bulli, gli spacconi, gli sboroni. Ci piacciono nella politica, in tv, al cinema, nel paese e nel quartiere. Sì, a noi piacciono gli imbecilli che sbraitano, urlano, si atteggiano, comandano, rompono a tutti, noi li ammiriamo anche se sono di cretini integrali. Noi li votiamo, li eleggiamo, li vezzeggiamo, in una parola li alleviamo

Willy Monteiro Duarte, un altro splendido ragazzo di vent’anni è stato ucciso da cosiddetti “balordi”, questa volta a Colleferro, pochi chilometri da Alatri dove tre anni fa fu massacrato Emanuele Morganti. È una cosa terribilmente dolorosa, che lascia senza fiato.

Però a questo punto dobbiamo guardarci in faccia e dirci le cose come stanno.

La categoria di “balordi” è più o meno la stessa: edonisti, cocainomani, fascistelli, impuniti. Le circostanze sono più o meno le stesse, quindi si può parlare di coazione a ripetere. La prima cosa che salta agli occhi leggendo i quotidiani locali e nazionali e frequentando un po’ quei luoghi, è che sul territorio che va dalla periferia sud-est di Roma fino alle porte di Napoli non sembra esserci né legge né morale che tenga. L’assassinio di Emanuele Morganti avvenuto ad Alatri nella notte tra il 24 e il 25 marzo 2017 e il pessimo spettacolo mediatico, sociale, politico e anche quello giudiziario (il processo è stato davvero deludente, non soltanto per la sentenza ma per come si è svolto, credetemi, l’ho seguito tutto) che ne è seguito non è servito a nulla. Il lavoro che va fatto per rendere un po’ più vivibile la nostra società è profondo e complesso, lunghissimo.

Queste vicende tragiche travolgono tutto, le istituzioni locali sono disarmate dinanzi a certi fenomeni innanzitutto perché non sanno trattenere i loro giovani subendo una emorragia continua verso altre zone del paese e altre parti del mondo e, quando i giovani restano, non sanno cosa far fare loro. Solo le scuole primarie e secondarie sono un presidio di civiltà, ma soverchiate da talmente tante difficoltà da sembrare fortini assediati.

I delinquenti che hanno ammazzato Emanuele e Willy non sono dei morti di fame, attenzione, una volta si sarebbero definiti “piccoloborghesi inferociti”. Sono professionisti, proprietari di locali, fabbrichette di scarpe, smorzi che magari non disdegnano di implementare le loro finanze con piccoli traffici di coca per fare soldi che poi vengono bruciati nei sabati folli. Comprano bottiglie di champagne, offrono a tutti, hanno macchine che costano decine di migliaia di euro, case hollywoodiane. Sono legati ossessivamente agli affetti familiari, trascinano i figli, i fratelli e i nipoti nel gorgo di vite “al di sopra”. Ecco da cosa deriva il “controllo del territorio”, dalla necessità di mantenere quel livello di vita.

Ecco perché dobbiamo guardarci in faccia, perché prima o poi noi, noi tutti, dovremo decidere quale società vogliamo, cosa vogliamo essere: un agglomerato di individui l’uno contro l’altro armati o un corpo sociale capace di agire per risolvere conflitti, squilibri sociali, problemi psicologici?

Le povere vittime di questi miseri assassini, sono figli e figlie nostre, ma il problema è che anche loro, i “balordi”, purtroppo lo sono. Anzi quei balordi lo sono ancora di più delle vittime, perché a quasi tutti noi piacciono i vincenti, i bulli, gli spacconi, gli sboroni. Ci piacciono nella politica, in tv, al cinema, nel paese e nel quartiere. Sì, a noi piacciono gli imbecilli che sbraitano, urlano, si atteggiano, comandano, rompono a tutti, noi li ammiriamo anche se sono di cretini integrali. Noi li votiamo, li eleggiamo, li vezzeggiamo, in una parola li alleviamo.

E, forse, il vero motivo è che anche a noi tutti piace vivere al di sopra non solo delle nostre possibilità, ma al di sopra delle nostre stesse aspettative, quindi a questi “balordi” siamo pronti a perdonare tutto, perché ci somigliano, perdoniamo loro anche l’assassinio più efferato, invece non perdoniamo le loro vittime di essersi fatte ammazzare, perché sono “perdenti”. Ok, sono arrabbiato, lo ammetto, sto scrivendo pieno di rinnovato dolore per la morte di Emanuele che riverbera in quella di Willy. Per favore, vorrei essere smentito.

Daniele Vicari

da il manifesto

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Un ragazzo giusto, i suoi assassini e noi. Tutti a scuola in nome di Willy

Era un ragazzo italiano di seconda generazione, Willy Monteiro Duarte, come si dice dei figli nati in Italia da genitori immigrati, in questo caso di origine capoverdiana: indistinguibili dai nostri, se non per il colore della pelle. Ebano quella sua.

Aveva ventuno anni. Cresciuto con la famiglia nei vicoli stretti di Paliano, pittoresco borgo sopraelevato nel Frusinate, era benvoluto da tutti. Un po’ ciociaro, un po’ no. Lo guardavi e ti stava subito simpatico: l’Italia del Ventunesimo secolo, comunque sia, io almeno lo spero, avrà le sue fattezze, la sua generosità, il suo coraggio, la sua allegria, e sarà migliore di tante altre che nel passato abbiamo avuto, più di quanto noi oggi possiamo immaginare. Padre e madre impiegati in un’azienda agricola, due sorelline più piccole.

Persone a posto. Perfettamente integrate. Un giovane carico d’energia vitale col futuro negli occhi, come dimostrano le foto pubblicate ieri sulle prime pagine di molti giornali. In quel sorriso irresistibile e positivamente contagioso saremmo tentati di riconoscere l’azzurro intenso delle isole atlantiche che gli scorreva nel sangue con atavica pulsione, ma in realtà la frenesia e l’entusiasmo della sua irrefrenabile adolescenza l’abbiamo forgiata anche noi. Diplomato all’Istituto alberghiero di Fiuggi, lavorava in un ristorante di Artena. Voleva diventare un cuoco. Tifoso romanista, giocava a pallone, sognava di poter indossare la maglia giallorossa allo stadio Olimpico, frequentava l’Azione Cattolica, aveva partecipato a un corteo di rievocazione storica nella piazza del paese e ne andava giustamente fiero. Era molto legato ai suoi amici: si capisce anche da certe inquadrature pubblicate su Facebook, tutti insieme col pollice alzato come per dire: noi siamo qua. E voi?

Non so chi glielo avesse insegnato, ma Willy sapeva, lo ha dimostrato coi fatti, pagandolo troppo caro, che se scopri un’ingiustizia accadere accanto a te, non puoi passare indifferente, chiamandoti fuori come se niente fosse. Ti senti spinto a intervenire. A costo di rischiare la pelle. Così sabato notte in via Oberdan, nel quartiere della movida a Colleferro, a sud di Roma, quando ha visto un suo ex compagno di classe invischiato in un tafferuglio, non ha esitato un istante a andare a soccorrerlo.

Col risultato che l’avversario ha chiamato al cellulare altri giovani poco più grandi, i quali sono arrivati in pochi minuti a bordo di una macchina di grossa cilindrata e hanno dato inizio a un pestaggio micidiale. Sono scappati tutti, tranne Willy che è rimasto da solo a fronteggiare l’orda selvaggia. Smilzo, scricchiolino, senza difesa, non abituato a fare a botte, una preda quasi inerme.

Basta guardare i volti degli aggressori, ora agli arresti, per intuire tutto: appassionati di arti marziali miste, coi muscoli costruiti mediante lunghe sedute in palestra, i corpi tatuati, gli sguardi truci, la testa vuota. Begli eroi: si sono accaniti cinque contro uno, vigliaccamente, sferrando calci mirati al cranio, uno dei quali è risultato fatale. Il branco dei predatori, capace di trasformare una bella provincia italiana di fine estate nella pianura del Serengeti, dove il più forte sbrana il più debole, si è dato alla fuga. I magistrati adesso indagheranno sulla presunta aggravante razziale. Gli assassini andranno alla sbarra: alcuni fra coloro che gli sono stati vicini negli scorsi anni forse si faranno qualche domanda.

Del resto, dovremmo porcela anche noi: educatori, insegnanti, genitori. Come è stato possibile allevare questi animali umani? Quali scuole hanno frequentato? Dove sono cresciuti? Finché ci saranno tipi come loro, avremo sempre perso tutti, è ovvio. Significa che qualcosa nel nostro sistema sociale, diciamo così, non funziona. Insomma assisteremo di certo al solito rendiconto. Ma chi ci ridarà il sorriso spensierato di Willy? In questi giorni stiamo tentando di riaprire le scuole italiane. Sarebbe un bel segno se lo facessimo, a prescindere da quelle che potranno essere le risultanze processuali, anche a nome suo.

Eraldo Affinati

da Avvenire

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Per i tatuati di Colleferro le botte sono un ascensore sociale

Sognano la vita di Vacchi ma inseguono la disperazione della provincia. Emanuele e Willy facevano la cosa giusta: provare a sedare una rissa. Le risse nei locali nascono sempre per cose balorde, uno sguardo alla ragazza del gruppo, una mancanza di “rispetto”. Emanuele e Willy non avevano branco e questo è stato fatale

I tatuati di Colleferro hanno questo modo – mica ci sono solo quei quattro, la comitiva è di una decina, e mandano avanti il piccoletto, quello si infila in un gruppo, prende la rissa, lo mettono giù. A questo punto, arrivano loro, i grossi, e menano tutti. E spaccano tutto. Fanno sempre così. Ogni sabato.

I tatuati di Colleferro – il sabato seminano il terrore. Gli piace la leggenda che gira intorno – a Artena, a Paliano, a Cori, a Colleferro, li conoscono tutti. Sono “la banda di Artena”. Li evitano tutti, se possono. Non sempre si può. E c’è sempre qualcuno che ancora non sa. E ci casca. Un’altra rissa, un altro pestaggio. Un’altra tacca. Un altro post da mettere sui social.

È il bullismo sistematico – l’ideologia del bullismo. Come fosse un riscatto, un ascensore sociale, una rivendicazione: «La vita in ginocchio, fatela fa’ a altri», scrive Gabriele Bianchi sul suo profilo facebook. Loro no. Loro, la vita la prendono a mozzichi. Loro, la vita degli altri, se la prendono.

I tatuati di Colleferro – non sono nati ricchi. Non sono come Gianluca Vacchi, tatuato e palestrato come loro che su Instagram posta le foto dei suoi balletti, dei suoi viaggi sullo yacht, del suo far nulla, con patrimonio assicurato, che ha migliaia e migliaia di follower. Vorrebbero. Loro vorrebbero – fiche strepitose accanto, dai fianchi sottili e dalle tette enormi, fiche- fumetto, patacche di orologi e collanazze d’oro, un brillante al lobo dell’orecchio, una ricchezza ostentata e schiaffata in faccia, che affascina migliaia di falliti, frustrati. Essere poveri non è una virtù – ce lo ricorda Briatore continuamente. Lavorare ed essere poveri – è una sfiga doppia. Ma Vacchi non ha bisogno di mozzicare nella vita – si diverte, se la gode, è ricco di famiglia. I tatuati di Colleferro no – se va bene, vanno in gita a Ponza un fine- settimana e si sparano i selfie, mica fanno la crociera nel Mediterraneo con chef e maggiordomo sullo yacht. Loro vorrebbero. Loro devono prenderla a morsi la vita. Quella degli altri.

«Il modo in cui odio e amo è pesante» – scrive uno dei tatuati di Colleferro. È una frase di Guè Pequeno, il rapper che è andato anche all’Isola dei famosi e ha scritto un libro, Guerriero, in cui racconta se stesso, tra periferie e suite a cinque stelle, tra poesia e slang di strada, tra droghe e ossigeno, e i suoi sogni: «Mi ero ripromesso due cose: che avrei spaccato col mio stile e avrei fatto i soldi». I soldi – è l’ossessione dei tatuati di Colleferro. Quelli che non hanno, quelli che vorrebbero avere. Ma c’è anche un’economia del bullismo – recupero crediti di droga, la palestra delle arti marziali: essere bulli di periferia può tornare utile, fare branco può tornare utile.

Prima o poi sarebbe successo – non può succedere a Vacchi e non può succedere a Pequeno, che ai soldi ci sono arrivati o se li sono trovati. A loro sì, a loro poteva succedere. Ma nessuno li ha fermati prima. Eppure, tutti sapevano.

Melissa Morganti è la sorella di Emanuele, ucciso nel 2017 a vent’anni a pugni e calci da un branco di balordi fuori del Mirò Music Club, in piazza Regina Margherita, ad Alatri. Era andato a ballare con la sua Ketty e non è più tornato a casa: «La mia idea di Giustizia mi spinge a voler fare in modo che quello che è accaduto a Emanuele non succeda ad altri. Perché questo non resti retorica, dico che la legalità e il rispetto per la vita umana devono venire prima del rispetto per la natura, l’ambiente, il clima. Se un Paese e i suoi cittadini non rispettano la vita dei loro simili, come e cosa possono amare e rispettare? Nella morte di Emanuele non c’è complotto o intrigo. È la fine di un bravo ragazzo di 20 anni che non desta molto interesse. Questo è il punto, la gente dovrebbe essere più colpita da un’uccisione immotivata». Invece, è successo a altri, è successo a un altro bravo ragazzo, a Willy, e nello stesso identico modo come è successo a Emanuele, una rissa, mettersi in mezzo per placare, una tempesta di violenza che si abbatte su di loro.

Emanuele e Willy facevano la cosa giusta – provare a sedare una rissa. Le risse nei locali nascono sempre per cose balorde, uno sguardo alla ragazza del gruppo, un urtarsi in qualche passaggio e non chiedere scusa, una mancanza di “rispetto”. Branchi che si contendono un territorio minuscolo dove qualcuno dovrà cacciare via qualcun altro, per sempre. Qualche volta saltano fuori le lame, a volte non serve. Emanuele e Willy non avevano branco – e questo è stato fatale.

È l’idea della violenza come regola di vita – fare la cosa giusta è una debolezza. La violenza è ovunque, non puoi resisterle, non puoi rovesciarla – puoi farla solo tua. Esibirla. Gonfiare i muscoli, metterti in posa – io sono un’arma pericolosa, fate attenzione. C’è il minuto di silenzio nella piazza del comune di Colleferro. La società civile è sgomenta. Non sa come reagire, sente di avere subito un torto, di vivere un lutto. Ma è troppo tardi, per Emanuele. Anzi, è “Tardissimo” – come canta Guè Pequeno. Nessuno farà più la cosa giusta a Colleferro. E noi, ne avremo di retorica, ancora.

Lanfranco Caminiti

da il dubbio

Comments ( 2 )

  • Katia

    Buongiorno.
    Io sono mamma di una ragazza 15enne..e tutto ciò che ci tengo a sottolineare è che dovrebbe ritornare L’OBBLIGO DI ANDARE A LAVORARE A 14 ANNI. SUCCEDEREBBERO MENO COSE DI QUESTO MALFAMATO GENERE. CARO IL MIO GOVERNO È ORA DI FINIRLA. La vita di un genitore è il lavoro più difficile che si possa fare.

  • Alfredo

    Se avete chiesto a Fartpage ed ad un giornalista del manifesto, é sicuro si stratta di una ricostruzione obiettiva ..lol

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