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Codice di condotta per le ONG. Prove tecniche di stato di eccezione

I ministri dell’interno ed il Codice di condotta per le ONG. Prove tecniche di stato di eccezione. Adesso le stragi avranno i nomi dei responsabili.

1. I tentativi del governo italiano, finora vani, di condividere le responsabilità di soccorso e di accoglienza dei migranti in fuga dalla Libia sulla rotta del Mediterraneo centrale si stanno traducendo in una lotta senza quartiere contro le ONG che salvano vite umane in mare e in prove tecniche di accordo con la Guardia costiera di Tripoli, da tempo supportata dall’Italia dopo il Memoriale d’intesa sottoscritto a Roma il 2 febbraio 2017.

Con la proposta di un Codice di Condotta per le ONG coinvolte in attività di ricerca e salvataggio, frutto di un vertice di ministri dell’interno a Parigi il 3 luglio scorso, e poi abbozzato dai vertici del ministero dell’interno italiano, da un punto di vista procedurale si assiste alla stessa manovra che portò all’adozione delle due decisioni dei Consigli europei informali del 14 e 22 settembre 2015, in materia di “Approccio Hotspot”, con prescrizioni adottate non in sede legislativa, attinenti la libertà personale e l’accesso alla procedura di asilo, che poi vennero attuate in Italia con una serie di circolari adottate dal Ministero dell’interno, fino alle Procedure Operative standard (SOP) rimaste fino ad oggi prive di una vera base legale, al di là di qualche richiamo nella legge n.46 del 2017 alla normativa dei centri di prima accoglienza e soccorso.

Adesso si vuole seguire la stessa procedura, suggerita dagli esperti che affiancano i vertici del Dipartimento di Pubblica sicurezza del Ministero dell’interno, anche per l’adozione di un Codice di condotta per le ONG, risposta alla ventata populista innescata da attacchi privi di fondamento ma ben pubblicizzati anche sul web, Un ennesimo tentativo del governo di dare come scontate condanne che ancora non ci sono state. Si può dare invece come scontato il fallimento del tentativo di minacciare il ritiro delle (poche) navi italiane inserite nell’operazione Triton di Frontex, se l’Unione Europea non aumenterà il suo impegno per respingere verso i porti libici le imbarcazioni cariche di migranti, e non accetterà anche di sbarcare nei porti dei paesi di bandiera (delle navi soccorritrici) le persone soccorse dalle navi straniere impiegate nella stessa operazione Triton. Con una lettera Triton scopre il bluff di Minniti e chiarisce che le sue attività sono soltanto “a richiesta del governo italiano”. Frontex non chiarisce però come mai abbia ritirato quasi tutte le sue navi dalla zona assai ristretta nella quale è più intenso il transito dei barconi partiti dalla Libia e dove dunque risulta maggiore la possibilità di essere coinvolti in attività SAR. Sono ormai disponibili ed inconfutabili i dati che provano già nel corso del 2016 il disimpegno di Frontex dalle acque del Mediteraneo centrale.

Anche al vertice di Tallinn Frontex non ha avuto alcuna legittimazione in più, come invece richiedeva il governo italiano. E qualcuno giunge ad ipotizzare che dopo queste scelte di ritiro, la “calma sospetta” di questi giorni, il rallentamento delle partenze, possa preludere ad una nuova ondata di partenze dalla Libia, che, in caso di ritiro anche delle navi umanitarie, potrebbero comportare una sequela di stragi con costi umani altissimi.

Altra proposta totalmente priva di base legale e di probabilità di accoglimento sarebbe quella di stabilire un “obbligo per i governi che finanziano le Ong di occuparsi anche della successiva accoglienza dopo la procedura di fotosegnalamento svolta in Italia. In questo caso, dopo l’avvio della pratica di richiesta di asilo si effettuerebbe un trasferimento aereo degli stranieri nel Paese di cui la nave che ha effettuato il salvataggio batte bandiera” . Ormai al ministero dell’interno non sanno più dove sbattere la testa. Per modificare il Regolamento Dublino o per stabilire la Relocation ( oltre a dare esecuzione a quella già decisa ma ancora non attuata) insomma per decisioni vincolanti per gli stati occorrono procedure a carattere legislativo. Oppure attendere il voto di un Consiglio Europeo formale. E non di un gruppo di ministri dell’interno, o peggio dei vertici di Frontex con i capi delle polizie. Altrimenti ognuno può fare e dire quello che vuole.

Proposte irricevibili perché contrarie al divieto di respingimento ed al dovere di sbarco dei naufraghi nel porto sicuro più vicino. Senza ingiuste penalizzazioni , magari decise discrezionalmente dalle autorità di polizia, a seconda del tipo della nave che è intervenuta in soccorso, della sua bandiera, e della sua appartenenza ad una ONG. O della disponibilità del suo equipaggio a collaborare con le attività di polizia.

Come riporta il Corriere della Sera del 9 luglio, per evitare di creare un corridoio umanitario “privato” , come ha evidenziato la commissione Difesa del Senato presieduta da Nicola Latorre, entro due giorni, al limite delle acque territoriali libiche arriverà un pattugliatore della Guardia di Finanza che potrà «monitorare» il tratto di mare antistante la Libia “agendo come supporto alla Guardia costiera locale per cercare di fermare o quantomeno rallentare le partenze”. Di fatto si ritorna ad un dispositivo che potrebbe configurare gravi responsabilità a carico dell’Italia per la violazione del divieto di respingimenti collettivi e di trattamenti inumani o degradanti, violazioni per le quali, dopo il respingimento collettivo effettuato il 6 maggio 2009 dal pattugliatore Bovienzo della Guardia di Finanza, l’Italia è stata condannata nel 2012 dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo ( caso Hirsi Jamaa ed altri/Italia).

Come riferito dalla stessa fonte,”l’arrivo del pattugliatore della Guardia di Finanza in acque libiche — che in Parlamento Minniti ha definito «un risultato senza precedenti perché ci consente di effettuare controlli in postazione avanzata» — servirà da supporto alla Guardia costiera (libica ?), ma anche da deterrente rispetto all’attività delle Ong che arrivano quasi sotto costa per soccorrere i migranti”. Parliamo di un solo pattugliatore per 1900 chilometri di costa, e per soccorsi che riguardano anche 10.000 persone in tre giorni. Si vuole riservare alla Guardia costiera di Tripoli la più vasta capacità di intervento, anche in acque internazionali, e per questo si tenta di obbligare le ONG a cedere il passo ai libici durante gli interventi di ricerca e salvataggio, anche al di fuori delle loro acque territoriali. Tutto sarebbe consentito ai libici, purché si riprendano i migranti in fuga e li riportino a terra, magari con la collaborazione di un pattugliatore della Guardia di finanza italiana. Altra proposta irrealizzabile ed in contrasto con il diritto internazionale e con il diritto interno che sanziona l’omissione di soccorso.

Gli interventi di ricerca e soccorso e poi le attività di sbarco a terra non possono essere delegate alla guardia costiera libica ( di Tripoli) che non garantisce né l’efficacia e la tempestività dei soccorsi, né la possibilità di sbarco in un “place of safety”, come sarebbe richiesto dalle Convenzioni internazionali.

Un recente Rapporto delle Nazioni Unite sulla Libia conferma lo stato di disfacimento delle istituzioni di quel paese e la costante violazione dei diritti umani, anche ai danni della popolazione libica, da parte delle milizie armate.

Ancora più esposta la condizione dei migranti in transito, soprattutto quelli più giovani, le donne, le persone più vulnerabili.

2. Il nucleo centrale delle ipotesi che il governo italiano cercherà di fare passare come proposte della Commissione Europea, è costituito dall’adozione di un nuovo Codice di condotta per le navi delle ONG “coinvolte” in operazioni SAR ( di ricerca e salvataggio). Un codice di condotta al quale avrebbe lavorato la Direzione della Polizia di frontiera del Ministero dell’interno.

Si tratta di un insieme di norme che per come sono state anticipate ai media risultano prive di basi legali o ripetitive di prassi già adottate da tempo dalle navi delle ONG che operano sotto il coordinamento della Guardia Costiera italiana. Non si tratta comunque di norme aventi valore legale, soprattutto in acque internazionali, dove vigono le Convenzioni internazionali di diritto del mare che non appaiono certo modificabili in base a decisioni adottate da un Consiglio dei ministri dell’interno, o dalla Commissione Europea, né tantomeno dalle decisioni discrezionali, come circolari, direttive o regolamenti interni, adottati dal Ministero dell’interno italiano.

Il Codice di condotta si riduce nella sostanza ad un ricatto che si vorrebbe imporre alle ONG, in quanto quelle ONG che si rifiutino di firmarlo potrebbero vedersi sbarrato l’ingresso in un porto italiano, anche se hanno a bordo persone soccorse in acque internazionali e sono dunque coinvolte in attività SAR, che sarebbero peraltro coordinate dal Comando della Guardia Costiera (IMRCC) che non potrebbe mai dare un ordine contrario al rispetto delle Convenzioni internazionale e dei Protocolli dei quali è il primo soggetto garante ed attuatore a livello nazionale. Almeno fino a quando potrà ancora decidere in autonomia rispetto al Ministero dell’interno . Non si comprende davvero in base a quale norma di legge, o trattato internazionale, il governo italiano potrebbe rifiutare l’ingresso in un porto ad una nave che ha operato, peraltro sotto coordinamento della stessa Guardia costiera italiana, attività di soccorso.

Oppure si vuole arrivare al punto di impedire attività di soccorso a chi non sottoscrive il codice di condotta? A questo punto scatterebbero precise responsabilità penali per tutte quelle autorità che impedissero o ritardassero lo svolgimento di una operazione di soccorso in acque internazionali da parte del mezzo che si trova più vicino ed è nelle condizioni di salvare il maggior numero di vite umane. Per poi condurle nel “place of safety” più vicino, obbligo che si ricava da una lettura coordinata delle Convenzioni internazionali di diritto del mare (UNCLOS , SAR e SOLAS) e dei relativi Protocolli aggiuntivi. Senza dinenticare il divieto di respingimenti collettivi e di trattamenti inumani o degradanti affermato dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo e dalla Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Sotto questo punto di vista il divieto di ingresso in acque libiche, tanto propagandato sui media, in realtà è un obbligo privo di contenuto se si considerano le norme cogenti del diritto internazionale del mare che impongono comunque, in assenza di un intervento di una autorità marittima competente per le attività SAR nella propria zona, il soccorso della nave che si trova più vicina, se questo può salvare vite umane. Quanto all’evidenza del pericolo corso dalle persone, questo non può essere deciso dalle forze di polizia ma va valutato dal comandante della nave che ne relaziona alle autorità marittime (IMRCC). E chi sbaglia paga, come si vedrà nei processi in corso a carico di esponenti della Marina per i soccorsi ritardati il 3 e l’11 ottobre del 2013. Ritardi che sono costati la vita di centinaia di persone, come potrebbe ripetersi adesso.

L’aspetto più subdolo del nuovo codice di condotta che il ministero dell’interno vorrebbe fare approvare dalla Commissione Europea e poi imporre alle ONG, è costituito dal divieto di trasbordo da una nave all’altra, prassi che negli ultimi mesi, dopo il ritiro dei mezzi di Frontex ed il disimpegno dei mezzi della Marina militare italiana, ha consentito comunque una qualche efficacia nell’intervento delle navi umanitarie, che hanno potuto contenere il numero delle vittime prodotto dal mancato intervento delle navi militari europee. E’ il Comando centrale del Corpo delle Capitanerie di Porto (IMRCC) che decide le modalità di soccorso ed anche di trasbordo, sulla base delle regole dettate dalle Convenzioni e dai Protocolli internazionali, e non certo sulle mutevoli e spesso imprevedibili decisioni del Dipartimento Polizia di frontiera del Ministero dell’interno.

Se si dovesse imporre il divieto di trasbordo, soprattutto in condizioni meteo difficili, si potrebbe costringere una nave già sovraccarica ad abbandonare in mare altri battelli carichi di migranti in procinto di affondare, e dunque con questo divieto si aumenterebbero in modo esponenziale i morti ed i dispersi. Il richiamo a possibili deroghe in casi di emergenza espone le ONG alla successiva valutazione da parte delle autorità di polizia di una situazione di emergenza. Valutazioni del tutto discrezionali, da parte di chi si pone principalmente il problema di ridurre gli sbarchi in Italia, che possono portare ad apprezzamenti di diverso valore, come si è verificato nel 2004 nel caso Cap Anamur. Una vicenda attuale ancora oggi, nella quale la protervia del ministero dell’interno impose l’arresto e poi il processo a tre componenti dell’organizzazione che avevano appunto dichiarato una situazione di emergenza non riconosciuta dalle autorità di polizia. Un processo che durò cinque anni, fino all’assoluzione degli imputati, ma un processo che segnò una netta diminuzione degli interventi di soccorso operati da navi private, che in molte occasioni , per evitare grane, fecero finta di non vedere e proseguirono la loro rotta senza vedere chi chiedeva soccorso.

Altre previsioni del nuovo Codice di condotta considerano come provate, e comunque contribuiranno ad alimentare ulteriormente, le accuse rivolte da mesi alle ONG, come se la magistratura avesse fornito la prova di reati commessi da singole persone o dai comandanti delle navi umanitarie. Prove che nessuno ha finora trovato. Così si prevede il divieto di spegnere il transponder, che le navi umanitarie non spengono mai, ed è facile provarlo, a differenza di molti pescherecci e navi commerciali, per non parlare dei mezzi di Frontex, che sono soliti scomparire dagli schermi per sottrarsi ai loro doveri di salvataggio, magari quando sono a vista sia delle navi umanitarie, per questo scomode testimoni da eliminare, che dei mezzi da soccorrere. Anche la prescrizione di non utilizzare fari durante le ore notturne priva le navi impegnate in operazioni di soccorso della possibilità di individuare le persone a mare e di soccorrerle. Altro che segnali lanciati ai trafficanti a terra.

Mentre appare del tutto pleonastica la prescrizione, pure contenuta nel codice di condotta, di non ostacolare le attività di ricerca e soccorso delle autorità libiche, perché semmai è vero che di norma avviene l’esatto contrario. Di chiaro segno repressivo, e potrà avere conseguenze gravissime, la previsione che vorrebbe imporre agenti di polizia a bordo delle ONG. Si vorrebbe che le indagini per la scoperta dei trafficanti e gli scafisti comincino già a bordo durante i soccorsi, come peraltro avviene da tempo sui mezzi di Frontex, e si vorrebbero in sostanza mettere le navi delle ONG sotto i comandi delle forze di polizia. Magari per impedire interventi di soccorso in attesa che arrivino le motovedette libiche. Una proposta irricevibile. Se questo punto del nuovo Codice di Condotta dovesse essere davvero imposto con norme vincolanti, l’unica conseguenza possibile sarebbe il ritiro immediato di tutte le navi delle ONG. Con un aumento delle vittime senza precedenti. Le attività di polizia giudiziaria non si possono svolgere in condizioni di pericolo per le persone da soccorrere o appena soccorse, o con l’ausilio di personale ( mediatori linguistici) appartenente alle ONG, come qualcuno vorrebbe riproporre oggi. Ma l’aspetto più grave è costituito dalla modalità di proposta del codice di condotta, che sembrerebbe su base volontaria, su adesione delle ONG, ma con un potere enorme lasciato alle autorità di polizia, di stabilire le conseguenze della mancata forma o eventuali violazioni del medesimo codice, una volta sottoscritto, che fossero accertate in via amministrativa. Senza alcun fondamento legale.

Anche l’obbligo di collaborare con le autorità di pubblica sicurezza dopo lo sbarco, che ha rappresentato lo spunto dei primi attacchi di Frontex contro le ONG, non è sorretto da alcuna base legale, salvo il dovere di rispondere alle domande della polizia giudiziaria in quanto persona informata dei fatti, o nella qualità di testimone, ma nel rispetto delle regole del codice di procedura penale. Nulla di nuovo dunque nel Codice di condota che propone il ministero dell’interno, e che si vorrebbe fare approvare a livello europeo,, se non che il mancato assolvimento di questi doveri di collaborazione non può comportare il divieto di sbarcare i naufraghi in un luogo sicuro più vicino al punto nel quale è stato effettuato il soccorso, dunque in Italia, atteso che non è certo Malta che coordina le attività SAR a nord della costa libica.

Altre prescrizioni del Codice di condotta che si vorrebbe imporre alle ONG, come l’obbligo di dichiarare le fonti di finanziamento, o di informare le autorità italiane e quelle dei paesi di bandiera dei soccorsi in atto, corrisponde a prassi già seguite o che si possono agevolmente rispettare. Semmai sarebbe auspicabile che Frontex dia contezza dei suoi bilanci con riferimento alle attività nel Mediterraneo Centrale. Un impegno che è diminuito malgrado l’incremento esponenziale delle risorse destinate all’Agenzia di Varsavia. Deve ritenersi esclusa la possibilità caldeggiata dal governo italiano che gli stati di bandiera delle navi soccorritrici possano essere costretti ad accettare il ritrasferimento dei migranti. Avere inserito queste previsioni in un Codice di condotta serve soltanto ad ampliare i poteri discrezionali delle autorità di polizia, poteri che, a seconda di come verranno esercitati, potrebbero sconfinare nell’abuso di ufficio. Considerazione che vale anche per l’ampliamento degli obblighi burocratici e delle certificazioni che devono essere acquisite da parte delle navi delle ONG. Si tratta di previsioni che implicheranno contenziosi amministrativi tali da rallentare le attività di ricerca e salvataggio, con soste nei porti per eseguire ispezioni e verifiche della documentazione di bordo, come si è verificato da ultimo nel porto di Palermo. Giorni preziosi nei quali le navi delle ONG saranno bloccate e non potranno andare a riprendere la loro atività di ricerca e salvataggio, anche in questo caso con un prevedibile aumento delle vittime.

Tutte le previsioni del nuovo Codice di condotta, destinato alle ONG che operano attività SAR, appaiono dirette a legittimare il rifiuto dell’ingresso in porto da parte della autorità italiane su determinazione principale delle autorità di polizia. Ma allora quale potere residuo resterà al Comando centrale del Corpo delle Caòpitanerie di Porto che coordina le operazioni di Soccorso ? Finirà commissariato dal Ministero dell’Interno ? Che il rifiuto di entrare in porto opposto ad una nave carica di profughi possa risultare in accordo con le vigenti convenzioni internazionali è tutto da dimostrare e sarà oggetto di ricorsi e denunce. L’Italia ha assunto obblighi precisi a livello internazionale, obblighi derivanti dalle Convenzioni che ha sottoscritto, obblighi che non possono essere elusi con decisioni del Ministero dell’interno, come sembra il nuovo Codice di Condotta in assenza di un qualsiasi supporto normativo europeo, e con prassi applicate dagli organi di polizia.

Di certo la minaccia di escludere l’ingresso in porto per le navi che non rispettino un codice di condotta tanto vessatorio e privo di basi legali non potrà che comportare il ritiro della maggior parte delle navi umanitarie, connun aumento oggi imprevedibile delle vittime, ma anche con un mutamento delle rotte ( peraltro già in corso) e dunque con mezzi più grandi e robusti ci sarà il probabile arrivo dei migranti direttamente sulle coste italiane.

Saranno questi gli effetti della guerra che si è ingaggiata contro le organizzazioni non governative che salvano vite umane in mare, forse troppe, rispetto a quanto vorrebbero i governi europei, un obbligo morale e giuridico imposto dalle Convenzioni di diritto internazionale che adesso si vogliono aggirare con misure regolamentari, altamente discrezionali ed adottate al di fuori delle procedure previste dai Trattati e dalla Costituzione italiana.

3. Alcune proposte per una alternativa, per soluzioni pacifiche alle crisi migratorie ed ai conflitti che ne sono alla radice , per garantire una mobilità umana controllata ed un maggiore rispetto dei diritti umani, sono state avanzate da tempo ma continuano ad essere sistematicamente ignorate.

La deterrenza che si vorrebbe praticare adesso, portando a compimento l’attacco contro le ONG, da Bruxelles e dal governo italiano, produce tragedie che si nascondono ad una opinione pubblica sempre più infarcita di menzogne contro i migranti e chi li assiste. Occorrerebbe aprire canali legali di ingresso e si sbarrano quelle poche vie di fuga e di soccorso che esistono ancora.

Si criminalizza la solidarietà e si assolve chi omette i doveri di ricerca e di soccorso. Quando si realizza nella storia una tale inversione di senso, con politiche criminali e criminogene che prevalgono sugli obblighi di solidarietà e di accoglienza, quando politici e agenti che violano la legge detengono il monopolio dell’uso della forza e chi assiste e salva vite umane viene messo sotto inchiesta, se non direttamente condannato dai tribunali popolari istituiti sulle pagine dei giornali e nei siti web, allora davvero possiamo dire che il fascismo, in forme diverse e tecnologicamente evolute, e’ ritornato. Un cancro che, sotto le spoglie del populismo e del nazionalismo, sta distruggendo le radici comuni dell’Unione Europea e la coesione sociale all’interno dei singoli stati membri.

Fulvio Vassallo Paleologo

da Associazione Diritti e Frontiere – ADIF

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