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“Ci stanno massacrando”. La Francia verso uno stato autoritario

È passato più di un mese dall’inizio della mobilitazione contro la “loi sécurité globale” in Francia e mentre il dibattito sulla legge rimane quasi fermo, la repressione delle piazze si fa sempre più forte. Abbiamo provato a ricostruire la situazione grazie al racconto di un militante e alle inchieste dei media indipendenti

«Il 12 dicembre ero in piazza a Parigi e quello che ho visto è stato … orribile». Léto rimane per qualche secondo in silenzio prima di riuscire a trovare le parole adatte a raccontare ciò che ha vissuto nelle manifestazioni parigine durante questo ultimo mese. «Sono anni che partecipo ai movimenti sociali e alle proteste, anche nei cortei più duri dei gilets jaunes ero là. Ma non sono mai rimasto così scioccato come due settimane fa. Non ho mai visto così tante cariche della polizia, così tanti colpi di manganello, così tante teste spaccate. È stato traumatico». Léto non è il vero nome ma lo pseudonimo di un militante francese che preferisce rimanere anonimo per raccontare la sua esperienza in questo periodo di mobilitazione.

A partire dalla fine di novembre, ogni sabato le piazze di tutta la Francia vengono riempite da centinaia di migliaia di persone, che si sono organizzate per protestare contro la legge sulla sicurezza globale, approvata in prima lettura dall’Assemblea Nazionale il 24 novembre e ancora in attesa del voto al Senato. Una legge che è stata definita da Amnesty International «una grave violazione del diritto all’informazione, del rispetto della vita privata e della libertà di riunione pacifica».

LA “MARCHE DES LIBERTÉS”

La mobilitazione inizia il 17 novembre, giornata in cui si comincia a protestare per le strade e le piazze di moltissime città tra cui Tolosa, Marsiglia, Lione, Grenoble, Bordeaux, Rennes e Nizza. Quella sera a Parigi più di duemila persone, secondo Reporterre, raggiungono l’Assemblea Nazionale. Nella protesta convergono istanze politiche di varie connotazioni: oltre ai collettivi di giornalisti, scendono in piazza anche movimenti ecologisti, femministi, gilets jaunes e associazioni per i diritti umani. Ma è solo l’inizio.

 

La data più emblematica è sicuramente quella di sabato 28 novembre, giorno della Marche des libertés che vede manifestazioni in 70 città francesi, con la partecipazione di circa 500 mila persone in tutto il paese.

 

Le manifestazioni del 28 novembre sono senza dubbio un successo, sia per la partecipazione massiccia, sia per la risonanza internazionale ottenuta. Solo dopo questa giornata, la maggioranza parlamentare inizia a contemplare l’ipotesi di riscrivere l’art.24 della legge sulla sicurezza globale, il più criticato perché vieta la diffusione di immagini in cui compare il volto di agenti di polizia. Una norma che di fatto rende impossibile testimoniare i casi di violenza in divisa e proprio per questo ha suscitato l’indignazione generale.

Da sabato 5 dicembre la situazione inizia a precipitare, come racconta Léto: «La manifestazione era violenta in certi punti e di conseguenza la repressione è stata brutale. A Parigi, place de la République, dove terminava il corteo, un uomo ha perso la mano per una granata». Il bilancio dei feriti tra i manifestanti del 5 dicembre è particolarmente pesante. Le principali testate nazionali spendono poche parole su questo lato del racconto, concentrandosi invece sulle devastazioni e sui poliziotti feriti. Il dibattito nazionale è monopolizzato dal “problema dei black bloc”. Il 10 dicembre Emmanuel Macron convoca il ministro degli interni Gérald Darmanin chiedendogli di “risolvere il problema dei black bloc con ogni mezzo”.

Il sabato successivo, 12 dicembre, ci sono circa 10mila manifestanti per le strade di Parigi. I poliziotti sono più di tremila: «Il corteo non era neanche iniziato che siamo stati caricati dalla polizia da tutti i lati, è stato davvero violento – racconta Léto – Appena la polizia vedeva un manifestante che aveva anche solo un indumento nero, partiva una carica».

Il ministro Darmanin la sera stessa si rallegra in un tweet dell’efficacia di questa nuova strategia detta “fermezza anti-casseurs” (“casseurs” è la parola usata dalla polizia e dalla stampa mainstream per indicare le persone che compiono devastazioni durante i cortei). La strategia consiste nell’arrestare chiunque abbia le sembianze di un black bloc, in maniera preventiva ma anche offensiva, come racconta Léto: «Per arrestare i loro obiettivi, decine di poliziotti caricavano tutto il corteo, picchiando chiunque si trovasse in mezzo. E subito dopo ricominciavano, ancora e ancora. Poi hanno iniziato a caricare da entrambi i lati della strada, andando avanti per ore. I colpi di manganello arrivavano continuamente, c’erano giornalisti con la faccia insanguinata e feriti ovunque. Anche io sono stato colpito al braccio». Alla fine del corteo il bilancio dei manifestanti arrestati è di 142 persone. Come denunciano molte associazioni e sindacati, si è trattato per la maggior parte di arresti arbitrari.

REPRESSIONE A 360 GRADI

Tra i 142 arrestati c’era anche Michael, attivista belga, come segnalava nel giorno di Natale la pagina Nantes Revoltée: «Si chiama Michael, è di nazionalità belga e passa le feste di fine anno in cella, dove è rinchiuso da 13 giorni. Il motivo? Ha partecipato alla manifestazione del 12 dicembre. Una volta arrestato, è stato messo in un centro di detenzione, senza che abbia commesso alcun reato». La pratica di arrestare gli attivisti stranieri con la minaccia dell’espatrio non è nuova, ma fa parte dell’apparato repressivo dello stato francese da diversi anni.

Moun è una donna di cinquant’anni e attivista gilet jaune. È stata arrestata alla manifestazione del 12 dicembre perché teneva aperto un ombrello multicolore in mezzo al corteo. L’hanno tenuta in garde à vue per 48 ore, hanno perquisito casa sua ed è stata aperta un’indagine a suo carico perché, secondo gli agenti di polizia, l’apertura dell’ombrello costituiva il segnale per i black bloc di partire con le devastazioni. Lo sconcerto generale che ha seguito questa vicenda ha portato alla nascita del Rainbow Bloc, in solidarietà a Moun, che è sceso in strada davanti al Consiglio di Stato sabato 19 dicembre, nonostante le manifestazioni fossero vietate per non intralciare lo shopping natalizio.

La storia di Moun è stata ripresa da diverse testate nazionali, le quali sono molto criticate dai manifestanti per la distanza tra quello che succede nelle strade e ciò che invece viene raccontato. Su questo fenomeno, la storia più eclatante è sicuramente quella del suonatore di tamburo.

Il 12 dicembre a seguito di una carica della polizia, un manifestante che suonava il tamburo è rimasto ferito alla testa e, mentre il canale BFMTV trasmetteva in diretta l’immagine del suo volto insanguinato, la giornalista della trasmissione commentava dicendo che non c’erano ancora stati feriti, si trattava dunque di sangue finto. BFMTV è uno dei principali canali di trasmissione di notizie in Francia, perciò la sequenza non è passata inosservata: in seguito all’indignazione suscitata sono arrivate delle scuse da parte del canale. Tuttavia la vicenda è emblematica della distanza tra realtà e racconto di cui danno prova alcune trasmissioni e testate giornalistiche. «I media hanno una grande responsabilità nella deriva autoritaria che sta prendendo il paese» commenta Léto. Anche sul bilancio della manifestazione, Léto è molto critico:

 

«Tutti quanti erano contenti di quello che è successo a Parigi il 12 dicembre. Non c’erano stati danni alle vetrine o per le strade, perciò era andato tutto bene. Mentre noi ci facevamo massacrare, tutti i politici si erano già affrettati a congratularsi con le forze dell’ordine per la gestione del corteo».

 

Questo ha una ripercussione anche nell’andamento della protesta. Nelle ultime settimane si è iniziato a parlare di un calo della mobilitazione, come se da un momento all’altro la gente non avesse più voglia di andare in piazza, ma in realtà molti cortei sono stati vietati e la dura repressione comporta anche il fatto che la possibilità partecipare a una manifestazione non è una cosa scontata per chiunque.

Inoltre, come spiega Léto: «Più i media dicono che la partecipazione diminuisce, meno le persone scenderanno in piazza e se ci sono meno persone alle manifestazioni, noi che continuiamo ad andare ci faremo massacrare ancora di più perché ci saranno meno telefoni a filmare quello che succede». La mobilitazione, in ogni caso, riprenderà dopo le feste di fine anno e sono già stati lanciati i prossimi appuntamenti all’inizio di gennaio. Per il 30 è prevista una manifestazione nazionale a Parigi. Ma perché si scende in piazza?

LEGGI LIBERTICIDE

Tutto il dibattito pubblico è concentrato sull’art. 24 della legge sulla sicurezza globale. Tuttavia il problema non è solo l’articolo 24. E anche la legge sulla sicurezza globale, non è l’unica a far preoccupare. Ma andiamo con ordine.

L’intero testo della legge sulla sicurezza globale mira ad ampliare fortemente i poteri delle forze dell’ordine in tutto ciò che riguarda la sorveglianza e il controllo dei cittadini, con una particolare attenzione ai contesti delle manifestazioni di piazza. Questo implica una generalizzazione dell’utilizzo delle telecamere di sorveglianza e dei droni da parte delle forze dell’ordine, ma anche nuove competenze per gli agenti di polizia municipale e per quelli di sicurezza privata. L’art. 24, che vieta la diffusione delle immagini di persone appartenenti alle forze dell’ordine, è solo la parte più visibile dell’intero apparato repressivo messo in atto da questa legge.

In questi giorni è in corso anche la discussione della legge sul separatismo, che con l’obiettivo di combattere il terrorismo estende gli ambiti di controllo dell’autorità pubblica nei confronti di associazioni, scuole, federazioni sportive e comunità religiose. Come fa notare Mediapart, l’art. 25 di questa legge ha forti somiglianze con il famigerato art. 24 della legge sulla sicurezza globale, poiché punisce la diffusione di informazioni private, prevedendo delle pene ancora più pesanti nel caso di violazione della norma. Ma non finisce qui. In questi giorni stanno entrando nell’ordinamento francese altri tre decreti relativi al cosiddetto fichage politique.

I decreti regolano la schedatura dei cittadini da parte delle autorità e, come denuncia il sito la quadrature du net, è molto inquietante il fatto che sia prevista la possibilità di schedare le opinioni e le attività politiche di ognuno, così come preoccupa l’ampliamento della pratica del riconoscimento facciale.

È contemplata anche la possibilità di schedare gruppi di persone individuate attorno a un “soggetto pericoloso”, un procedimento che, come spiega il sito, è già attuato da tempo in maniera illegale e in questo modo sarebbe ufficializzato. Se da un lato la legge sulla sicurezza globale autorizza le tecniche per ottenere dati su cittadini e militanti grazie all’uso di droni e telecamere, dall’altro, questi tre nuovi decreti facilitano il modo in cui tali informazioni potranno essere utilizzate e conservate.

 VIOLENCES POLICIÈRES

Tutto questo si inscrive in un contesto molto teso per quanto riguarda le violenze della polizia. Negli ultimi anni l’ostilità dell’autorità pubblica nei confronti dei movimenti sociali si è fatta sempre più risoluta, fino a culminare nella brutale repressione che si è scatenata contro il movimento dei gilets jaunes, che solo a dicembre 2018 contava 3300 attivisti arrestati, 1052 feriti di cui uno in coma e un attivista ucciso. Ma le violenze della polizia non riguardano solo le manifestazioni.

Come documentato da un’inchiesta realizzata dal sito Bastamag, dal 2014 a oggi c’è stato un significativo aumento delle persone rimaste uccise per un intervento della polizia, più di venti ogni anno. Uccisioni seguite da una quasi-totale impunità. Nella conclusione del documento si legge un altro dato rilevante:

 

«Un profilo della vittima è ricorrente. Si tratta di un uomo di età inferiore ai 26 anni, dal nome di assonanza africana o magrebina, che abita in un quartiere popolare nella periferia di un agglomerato come Parigi, Lione o Marsiglia».

 

Questo dato si collega a un fenomeno, detto contrôle au faciès, che consiste nella procedura di controllo d’identità basata sull’aspetto e l’apparenza della persona controllata. Numerose ricerche confermano il fatto che le persone con tratti africani o magrebini hanno molta più probabilità di essere controllate dalle forze dell’ordine.

Tuttavia, in Francia, anche solo ammettere l’esistenza delle violences policières o del contrôle au faciès non è per niente scontato, ma costituisce una vera e propria presa di posizione politica. Su questo è stata emblematica l’intervista fatta il 4 dicembre dai giornalisti di Brut a Macron, che dopo alcune sollecitazioni è sbottato: «Se è questo che volete, lo dico: ci sono le violences policières. Contenti?». Il presidente ha anche ammesso il problema del contrôle au faciès, ma questa cosa non è stata presa bene dai sindacati di polizia.

FORZE DI QUALE ORDINE?

Nel giorno che segue l’intervista, i due principali sindacati di polizia, Alliance e Unité SGP chiedono ai poliziotti di smettere i controlli e ridurre al minimo le attività per protestare contro le affermazioni del Presidente della Repubblica. Il 14 dicembre un centinaio di poliziotti manifestano sotto l’Arc de Triomphe a Parigi per lo stesso motivo. Ma le proteste dei sindacati di polizia non riguardano solo le affermazioni di Macron. La notte del 16 dicembre, violando il coprifuoco, una trentina di poliziotti si reca a sirene spiegate sotto l’appartamento della sindaca per chiedere un miglioramento delle loro condizioni di lavoro. Indossano l’uniforme, sono armati e utilizzano le automobili di servizio. Qualcosa di simile accade la notte successiva a Tours, dove un centinaio di poliziotti va a manifestare sotto al palazzo di giustizia in sostegno a un collega che era stato condannato per un atteggiamento violento nei confronti di un arrestato.

Nei giorni seguenti, pagine militanti come Nantes Révoltée e Cerveaux Non Disponibles commentano con molta inquietudine questi avvenimenti, con riferimento alla pericolosa e crescente autonomia delle forze dell’ordine rispetto alle istituzioni democratiche, accompagnata da atti intimidatori di varia natura svolti nella quasi totale impunità. Ad aumentare l’inquietudine si aggiunge l’articolo pubblicato il 27 dicembre da Le Monde che documenta degli scambi poco trasparenti tra Bruno Roger-Petit, consigliere di Macron, e Marion Maréchal, figura di punta dell’estrema destra francese.

In ogni caso, le lamentele dei sindacati di polizia non rimangono inascoltate a lungo. Il 18 dicembre il ministro Darmanin si affretta a ricevere i rappresentanti dei sindacati, in vista del Beauvau de la Securité, consultazione generale che si terrà a gennaio 2021, a cui i sindacati di polizia non hanno ancora confermato la loro partecipazione, condizionata dalla sorte che avrà l’art. 24 della legge sulla sicurezza globale. Secondo alcune fonti, il governo prevede di stanziare 1,5 miliardi di euro per migliorare le formazioni e l’armamentario delle forze dell’ordine.

 

«Questo indica un rapporto di forza molto squilibrato. Le altre categorie di lavoratori in mesi e mesi di sciopero non ottengono quasi nulla, mentre ai sindacati di polizia bastano pochi giorni per avere quello che vogliono».

 

Così commenta David Dufresne, intervistato da ACTAzone all’inizio di dicembre insieme al fotoreporter NnoMan. David Dufresne è un giornalista molto conosciuto in Francia per le inchieste che ha condotto sugli abusi in divisa. Da due anni raccoglie, sulla piattaforma Allô Place Beauvau, video e testimonianze di violenze della polizia durante le manifestazioni. Recentemente la sua ricerca si è spostata anche sulla violenza comunicativa dei profili twitter di alcuni esponenti delle forze dell’ordine, tenendo d’occhio le tendenze all’estrema destra, l’islamofobia e il razzismo dei tweet pubblicati.

UNA GUERRA DI IMMAGINI

«Fino a qualche anno fa, prima di poter pubblicare un’immagine o un video di violenze della polizia, potevano passare giorni o settimane – racconta David Dufresne nell’intervista – mentre adesso, grazie ai social network e ai live, le immagini vengono trasmesse in diretta a una velocità che prima era inimmaginabile. Le violences policières esistono da decenni, ma la differenza è che adesso sono visibili e quella che per noi è una rivelazione, dal punto di vista delle forze dell’ordine è un’emorragia». Allora hanno dovuto organizzarsi. All’inizio il metodo principale per evitare la diffusione di immagini consisteva nel distruggere la strumentazione di giornalisti e fotoreporter, come racconta NnoMan: «Tutti, dalla contestazione alla Loi Travail a oggi, abbiamo del materiale che è stato danneggiato o distrutto dai colpi di manganello. Ma anche le minacce sono ricorrenti in piazza».

Con il passare del tempo, tuttavia, le immagini continuavano a diffondersi e questi metodi di repressione si sono dimostrati insufficienti. «I sindacati di polizia hanno fatto pressione sulla politica – continua NnoMan – e ora stanno adattando le loro pratiche per fermarci con tutti i mezzi che hanno».

 

I due giornalisti spiegano che tutto questo dispiegamento di forze punta essenzialmente a un obiettivo: impedire alla gente di andare a manifestare.

 

Anche il nouveau schéma de maintien de l’ordre, reso pubblico dal ministro Darmanin all’inizio di settembre, è rivolto in questo senso. Quanto più i giornalisti sono inquadrati e controllati dalle forze dell’ordine, tanto più si libera il campo tra i manifestanti e lo schieramento di polizia, che avrà carta bianca per fare quello che vuole perché non c’è nessuno a filmare quello che succede.

Léto non ha molti dubbi al riguardo: «Dopo tutti questi anni di repressione, la gente continua lo stesso a scendere in piazza. Prima si manifestava per la voglia positiva di agire, di cambiare il mondo. Adesso scendiamo in piazza perché non abbiamo scelta».

Sofia Cabasino

da DINAMOpress

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