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Ci mancava il muro di Calais

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Iniziata dalla Spagna a Ceuta e Melilla, la corsa a costruire barriere sempre più “invalicabili” a difesa dell’Europa e dei singoli Stati si ripropone sul confine anglo-francese con dettagli tendenti al bieco. Intanto sempre più migranti trovano la morte nel tentativo disperato di attraversare comunque le frontiere. I dati ufficiali parlano di un vero genocidio

Ci mancava il muro di Calais, progettato dal Regno Unito in accordo con la Francia, per completare il quadro dell’Europa-fortezza. Questa locuzione, che da molti anni usiamo in senso traslato, oggi è divenuta puramente descrittiva. L’imminente costruzione della «Grande Muraglia di Calais» (come è stata definita con un certo sarcasmo) non è che tappa ulteriore del processo di fortificazione non solo dell’Europa, ma anche di singoli Stati, nonché del dilagare di protezionismi e nazionalismi, a loro volta culla delle formazioni di estrema destra. Per non dire della tentazione ricorrente di esternalizzare e militarizzare le frontiere, prolungando così i bastioni della fortezza fino all’Africa subsahariana.

Fa impressione osservare la mappa delle barriere anti-migranti che, erette lungo le frontiere nazionali, punteggiano sempre più fittamente il territorio europeo. Pioniera in questo campo è stata la Spagna, con le famigerate, blindatissime barriere nell’enclave di Ceuta e Melilla, in territorio marocchino. Costruite a partire dal 1998, anche col contributo finanziario dell’Unione europea, sono costate la vita a non pochi migranti. Basta ricordare che tra settembre e ottobre del 2005 almeno tredici subsahariani furono colpiti a morte dai proiettili di gomma della Guardia civile, mentre tentavano rischiosamente di oltrepassare gli sbarramenti. Per non dire delle centinaia di persone da lì deportate nel deserto del Sahara e abbandonate a una morte quasi certa.

Da allora e soprattutto in coincidenza con l’attuale «crisi dei rifugiati», numerosi Stati, anche tra i ventotto dell’Unione, hanno ripristinato i controlli alle frontiere, sospendendo così la libertà di circolazione degli stessi cittadini europei: uno dei pochi elementi, concreto e simbolico, che dava loro il senso di una comune appartenenza. Ma non solo: hanno anche eretto muri e barriere di filo spinato, in qualche caso sorvegliati dall’esercito. Lo hanno fatto dapprima l’Ungheria e l’Austria – immemori del ruolo che svolsero nel 1989 rispetto all’apertura della Cortina di ferro – alimentando in tal modo reazioni a catena: Slovenia, Croazia, Serbia, Macedonia, Bulgaria, Lituania, Estonia hanno, a loro volta, eretto muri contro gli “alieni”.

Come scrive l’antropologo Michel Agier, se la frontiera permette ancora relazioni e scambi, «il muro rende i migranti “indesiderabili” e (…) autorizza ogni genere di violenze». Inoltre, «rafforzando il fantasma dell’invasione e della contaminazione», soggiunge, «i muri incrementano la paura e richiamano ancora altri muri». E non servono affatto a bloccare migranti e rifugiati, i quali tenteranno comunque di dare l’assalto, costi quel che costi, al nuovo muro, per quanto “invalicabile” e sorvegliatissimo. O saranno sospinti verso itinerari ben più lunghi e rischiosi, che faranno lievitare le tariffe dei passeur.

Ricordiamo che la “Grande Muraglia di Calais”, dal costo ragguardevole di 2,7 milioni di euro, alta quattro metri e lunga più di un chilometro, sarà finanziata dal Regno Unito, ma costruita dai servizi francesi della DIR, la Direzione interdipartimentale delle strade. Insomma, quando si tratta di guerra ai migranti non c’è Brexit che tenga. A render più bieco questo progetto c’è un dettaglio estetico, per così dire: la DIR ha assicurato che sarà un muro, sì di cemento, ma adornato di piante e fiori nel lato rivolto agli abitanti di Calais; il lato opposto, quello che guarda alla “giungla” – la più grande bidonville di migranti in Europa –, sarà di nudo cemento, il più liscio possibile per impedirne la scalata e quindi l’assalto ai camion diretti nel Regno Unito.

Il muro anglo-francese prolungherà e rafforzerà la recentissima barriera, alta quattro metri e sormontata da filo spinato, che separa l’autostrada dalla “giungla”. Qui, nonostante gli sgomberi, tuttora si affollano, in condizioni indegne (malgrado la solidarietà attiva di tante associazioni) un gran numero di profughi: secondo il censimento compiuto lo scorso agosto dall’Ong Help Refugees, sono più di novemila, provenienti in massima parte dal Sudan e dall’Afghanistan. Fra loro, 865 minorenni, dei quali 675 non accompagnati. Il più giovane ha appena otto anni.

Di sicuro questi autentici dannati della terra tenteranno altri percorsi, ancor più rischiosi, e i passeur si organizzeranno di conseguenza. Finora almeno una quarantina di loro hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’altro versante del canale della Manica, incrementando l’infinita ecatombe dell’Europa-fortezza. Chi ritiene sia scorretto ed enfatico parlare in proposito di genocidio, mediti sui dati seguenti. Secondo il Missing Migrants Project, se nel 2016, fino a oggi, i migranti morti e “dispersi” su scala mondiale sono stati 4.310, di questi ben 3.226 erano diretti in Europa. Tradotto in percentuale, ciò vuol dire che, il tentativo di raggiungere una meta o l’altra del nostro continente è costato la vita al 74, 8% del totale delle vittime di migrazioni su scala planetaria: una percentuale ancor più elevata di quella dell’intero anno 2015, quando il “primato” europeo si fermava al 72,11%.

Un tal lugubre record è l’esito di decenni di blindatura delle frontiere, di costruzione di muri, reticolati e dispositivi di sorveglianza, di misure d’intimidazione, violenza, segregazione e deportazione dei migranti. Il “primato” non porterà bene all’Europa: priva di memoria, progetto, concordia, in preda al delirio da invasione, per quanto fortificata essa sia, rischia di frantumarsi miseramente insieme ai muri che ha elevato.

Annamaria Rivera da il manifesto

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