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Caso Shalabayeva: «Fu un vero e proprio sequestro di Stato »

Le motivazioni delle condanne a carico di Improta e Cortese

Un vero e proprio «rapimento di Stato», una grave «menomazione della libertà personale». Pesano come un macigno le parole dei giudici di Perugia, che hanno depositato ieri la sentenza con la quale il 14 ottobre scorso hanno condannato a cinque anni di reclusione l’ex capo della Squadra mobile di Roma e attuale questore di Palermo, Renato Cortese, e l’ex dirigente dell’Ufficio immigrazione, Maurizio Improta, per il sequestro di Alma Shalabayeva e della figlia di sei anni Aula.

Shalabayeva è la moglie del dissidente kazako Muktar Ablyazov, che nel maggio del 2013, secondo la Procura umbra, è stata sequestrata per essere rimpatriata. La donna e la figlia sono poi tornate in Italia e a Shalabayeva è stato riconosciuto l’asilo politico. Secondo la sentenza, il loro trattenimento forzoso e la successiva espulsione verso la Repubblica del Kazakistan «rappresentano un caso eclatante non solo di palese illegalità – arbitrarietà delle procedure seguite dalle istituzioni italiane, ma, soprattutto, una ipotesi di palese violazione dei diritti fondamentali della persona umana». Per i giudici si tratta di «un crimine di eccezionale gravità, lesivo dei valori fondamentali che ispirano la Costituzione repubblicana e lo Stato di diritto». Al punto da spingersi a definire la norma incriminatrice «quasi non adeguata a rappresentare, compiutamente, le dimensioni della condotta delittuosa e le devastanti conseguenze che essa ha cagionato».

Un unicum nella storia giudiziaria italiana che presenterebbe «chiari segnali di eccezionalità e di straordinario accanimento persecutorio». La circostanza più scioccante, per il Collegio, è che nessun dirigente o funzionario della Polizia di Stato abbia riflettuto sul fatto che la possibile estradizione di Ablyazov e la successiva espulsione della moglie e della figlia «sarebbero avvenute in favore di un paese, il Kazakistan, messo all’indice, nella comunità internazionale, proprio perché nazione che violava i diritti umani, anche praticando la tortura e la eliminazione fisica degli oppositori». Ablyazov era stato dipinto «con le sembianze di un Bin Laden kazako, cioè di un pericoloso terrorista internazionale, quasi certamente armato, che metteva in “pericolo la sicurezza del nostro paese” ( furono queste le parole usate dal ministro dell’Interno nel colloquio con il suo Capo di Gabinetto, sollecitandolo ad incontrare i rappresentanti del Kazakistan)».

Le autorità kazake, però, avevano mentito, nel tentativo di far apparire Ablyazov come persona legata ad ambienti terroristici e, pertanto, pericoloso, in quanto «avrebbe potuto adoperare le armi in caso di arresto». Ma non solo i reati di cui era accusato erano di natura economica, «nel maggio 2013 gli investigatori privati italiani e israeliani, che lavoravano per conto dei committenti kazaki, non avevano mai avuto occasione di constatare che Ablyazov circolasse armato o disponesse di una scorta armata».

La domanda chiave, rimasta senza risposta, è chi diede l’ordine di tale «deportazione». Ovvero il livello istituzionale di tale decisione. Domanda che lo stesso tribunale si è posto, pur senza essere in grado di risolvere il quesito, pur potendo sostenere comunque «una limitazione o compressione della nostra sovranità nazionale». E ciò perché i rappresentati dello Stato imputati nel processo «accantonarono il giuramento prestato alla Costituzione e di fatto servirono gli interessi di altra nazione, cioè della dittatura kazaka». Insomma, tutta l’operazione fu «eterodiretta dall’autorità kazaka, deus ex machina dell’intera procedura espulsiva», una procedura che di fatto ha prodotto «una plateale violazione della norma che garantisce la libertà dello straniero di corrispondenza, anche telefonica, con l’esterno». «La sentenza è molto puntuale e ha uno sviluppo logico estremamente rigoroso – ha commentato al Dubbio il professor Astolfo di Amato, legale di Shalabayeva e della figlia -.

I magistrati hanno fatto un lavoro eccellente nell’analisi e nella valutazione delle prove». E anche se l’interrogativo sulla catena degli ordini non ha trovato risposta, il tribunale ha ricostruito le telefonate che, fino all’ultimo minuto, ci sono state tra i diplomatici del Kazakistan e il prefetto. «Non è dunque assolutamente vero – ha concluso – che la polizia si sia disinteressata. E le telefonate risultano anche tra i kazaki e Cortese»

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