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Il caso di Giuseppe Uva arriva alla Corte Europea di Giustizia

La Corte europea dei diritti dell’uomo ascolterà le ragioni del ricorso, presentato a novembre 2020 da Fabio Ambrosetti, Stefano Marcolini e Fabio Matera, i legali di Lucia Uva, la sorella di Giuseppe, morto il 14 giugno 2008 nell’ospedale di Varese dopo un violento fermo da parte dei carabinieri durato tutta la notte. Una delle storie di malapolizia più conosciute e controverse di questo paese.

Finora nessuno è stato condannato per la morte dell’operaio varesino di 43 anni. Questa, come direbbe un anziano cantante blues introducendo la sua musica con un borbottio, a metà tra il soliloquio e l’annuncio al mondo, “è una storia molto triste”. In effetti, la lunga vicenda umana e giudiziaria di Giuseppe Uva e di sua sorella Lucia, è gravata, oltre che dal dolore, da una sorta di cupezza. Eppure, il blues di Giuseppe e Lucia Uva – come sempre in quel repertorio musicale – fa intravedere nelle note finali un barlume di luce.

Di questo, poi si dirà. Ma intanto una prima immagine. Quando, il 5 giugno del 2013, ci ritrovammo frustrati e impotenti davanti ai cancelli dell’aula bunker di Rebibbia, dove era stata appena pronunciata la sentenza del primo processo per la morte di Stefano Cucchi, assistemmo a una scena inaudita. Lucia Uva, arrivata da Varese nell’utilitaria guidata da suo marito Paolo, sempre silenzioso e protettivo (deceduto poco più di un anno fa), ebbe un moto di lucida furia, che si tradusse in una lunga invettiva. Si mise a camminare, minuta e sola, di fronte a un plotone di poliziotti in assetto anti-sommossa, avanti e indietro, con larghe e lente falcate, fino al termine della fila e poi tornando sui suoi passi, e ancora ripetendo quel breve percorso e parlando con voce singolarmente alta e sonora.

Si rivolgeva ai giovani agenti, chiamandoli “figli miei” e dicendo loro di Stefano Cucchi e di suo fratello Giuseppe, con parole e tonalità che al tempo stesso suonavano come durissime e familiari. Ecco, fu in quella circostanza che pensammo: è come un blues. Secondo Alessandro Portelli, docente di Letteratura angloamericana all’Università La Sapienza di Roma, massimo esperto e traduttore di Bruce Springsteen, il blues è “prendere in mano il proprio dolore, guardarlo come dal di fuori e trarne una specie di paradossale ironia”.

Di quest’ultima, l’ironia, è difficile qui trovare traccia, ma è in particolare quel “prendere in mano il dolore” che ci interessa. Torniamo all’inizio di questa storia. Il 14 giugno del 2008, a Varese, Giuseppe Uva, operaio 43enne, passa la serata con l’amico Alberto Biggiogero. I due seguono una partita di calcio in televisione, bevono qualche bicchiere di troppo e girano per la città, fino a quando – è ormai notte fonda – decidono di spostare in mezzo a una strada alcune transenne trovate sul marciapiede. È l’episodio che farà precipitare la situazione.

Una pattuglia di due carabinieri raggiunge Uva e l’amico e li conduce in caserma facendosi supportare da altri sei poliziotti. In tutto otto uomini che costituiscono pressappoco il totale delle forze destinato al pattugliamento notturno della città. Un impegno di risorse assai rilevante per far fronte a due persone in stato di ebbrezza, che non vengono identificate e alle quali non viene notificato alcun verbale e per le quali non viene eseguito alcun fermo o arresto. E nessuna comunicazione in merito verrà trasmessa al magistrato di turno. Poi, Uva, a seguito di un trattamento sanitario obbligatorio, alle sei del mattino finirà in ospedale e qui troverà la morte qualche ora dopo.

Il giorno successivo, Biggiogero presenterà una denuncia in Procura, in cui racconta, in modo dettagliato, ciò che ha visto e sentito nel corso di quella notte mentre si trovava nella caserma dei carabinieri, a pochi metri dal locale in cui l’amico era trattenuto dai militari. Da quel momento prenderà le mosse una vicenda giudiziaria a tratti paradossale, che vale la pena sintetizzare perché indicativa di un complesso sistema di procedure e istituti, che può trasformarsi in un meccanismo perverso. Le prime indagini, condotte dai pm Sara Arduini e Agostino Abate (anch’egli a suo modo una figura tragica, che richiederebbe un blues) partono con gravi lacune e si concentrano su quanto accaduto in ospedale, ignorando la denuncia del testimone oculare, Biggiogero, e tutto quanto avvenuto nelle ore trascorse da Uva in caserma.

Il primo processo vedrà imputati solo i medici, successivamente assolti nei diversi gradi di giudizio. Per avere una prima sentenza a carico degli operatori di polizia si dovrà aspettare il 15 aprile 2016. Ma l’iter giudiziario terminerà solo nel 2020, quando la Cassazione confermerà l’assoluzione dei due carabinieri e dei sei poliziotti presenti nella caserma nelle ore in cui Bigioggero sostiene di aver udito le richieste di aiuto e le grida di dolore dell’amico. Le varie sentenze, a dire il vero, non offrono risposte adeguate alle molte domande rimaste aperte, quali: come si è potuto trattenere in caserma per ore, senza alcun titolo, un libero cittadino?

Come questi si è procurato i lividi e le ferite, e qual è la spiegazione degli ematomi e del sangue sul corpo e sui vestiti? Non sono domande peregrine e non vengono riproposte per partito preso, se appena si tiene conto che il Consiglio Superiore della Magistratura ha sanzionato i procuratori Abate e Arduini per non aver svolto correttamente e tempestivamente le indagini, creando un danno non solo alla vittima, ma agli stessi imputati che avrebbero potuto meglio difendersi dalle accuse. Da qui la decisione dei familiari della vittima di ricorrere alla Corte Europea dei Diritti Umani (Cedu): e solo pochi giorni fa – ecco il barlume di luce di cui si è detto – la buona notizia.

La Cedu ha ammesso il ricorso presentato dagli avvocati Stefano Marcolini, Fabio Matera e Fabio Ambrosetti. Questi i quattro principali motivi del ricorso, ritenuti, evidentemente, plausibili dalla Corte europea: 1. Uva è stato sottoposto a trattamenti inumani e degradanti e comunque a maltrattamenti, sia dal punto di vista fisico che psicologico, in violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani; 2. Lo Stato italiano non si è adoperato a sufficienza per accertare i fatti, perché la lunghezza del processo e l’imperizia delle indagini non avrebbero consentito il raggiungimento della verità, neanche se essa fosse stata a portata di mano; 3. Il legislatore italiano ha introdotto nell’ordinamento il reato di tortura solo nel 2017, dopo quasi trent’anni dalla firma della Convenzione Onu contro la tortura: e senza questo colpevole ritardo, l’autorità giudiziaria avrebbe potuto disporre di strumenti più appropriati e incisivi per la valutazione dei possibili comportamenti delittuosi; 4. Nel secondo grado del processo, a carico degli appartenenti alle forze di polizia, ci si è limitati ai verbali del primo grado senza che i testimoni venissero nuovamente ascoltati, in violazione di una precisa disposizione della stessa Cedu.

L’ammissione del ricorso è già un fatto importantissimo, perché, va ricordato, la Cedu tende a dichiarare inammissibile oltre l’80% dei ricorsi presentati. E perché è stata la stessa Cedu, in questi anni, a fare opera di giustizia, intervenendo o correggendo, criticando o sanzionando lo Stato italiano: in occasione delle sevizie a danno di detenuti, come nel caso dell’istituto penitenziario di Asti; del sovraffollamento carcerario, denunciato dalla “sentenza Torreggiani”; delle violenze nella caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova del 2001.

La Cedu, si può dire, soccorre provvidenzialmente laddove la responsabilità dello Stato, per omissione o azione, oltrepassa il livello di tollerabilità ammesso da una società mediamente sensibile e civilizzata. Per quanto riguarda la morte di Uva, va da sé che l’iter della decisione potrà essere ancora lungo e che l’esito non è affatto scontato. Ma, intanto, la decisione della Cedu ci dice che questi dolenti dodici anni nella vita di Lucia Uva – in una città talvolta ostile, quasi sempre indifferente – non sono trascorsi invano. Ormai è diventato un vezzo letterario, ma questa vicenda sembra affermare la forza di una residua speranza e, magari, il ritmo luccicante di un blues: C’è un giudice a Strasburgo/C’è un giudice a Strasburgo.

Luigi Manconi e Valentina Calderone

da la Stampa

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