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Carcere: Un altro anno da dimenticare

55 detenuti si sono uccisi, 34 bambini sono in cella con le madri, Il sovraffollamento è ancora drammatico. Il coronavirus ha cambiato il modo di concepire la galera? La risposta è nei dodici mesi appena passati, pieni di storie, numeri e fallimenti.

Nel maggio del 2020 Sarah Stillman si chiedeva sul New Yorker se il coronavirus avrebbe messo in discussione l’incarcerazione di massa. Stillman si riferiva agli Stati Uniti, il paese con più detenuti in rapporto alla popolazione: 655 ogni 100mila abitanti. Ma in fatto di galere la corsa a chiuderci dentro quante più persone possibile è combattuta, e il tifo è rumoroso: se si può fare male, si farà peggio. Perciò la domanda è interessante anche rispetto all’Italia, che ha 90 detenuti ogni 100mila abitanti e dal 1990 a oggi ha visto raddoppiare le persone in galera, passando da circa 24mila a più di 60mila nel gennaio del 2020. In questi mesi il covid-19 ha scalfito l’idea che non ci siano alternative alle celle che con grande spensieratezza la lingua del ministero della giustizia chiama “camere”?

Per poter rispondere a questa domanda bisogna riavvolgere il nastro e guardare cos’è successo negli ultimi 365 giorni.

Gennaio Il 2020 si apre con quasi 61mila persone dietro le sbarre, anche se i posti disponibili sono circa 47mila. Cinquemila detenuti scontano pene inferiori a due anni, potrebbero chiedere i domiciliari, ma molti sono senza avvocati o non hanno un domicilio: sono senzatetto, stranieri o persone che è meglio che non tornino dalle famiglie. Qualcuno toglie d’impaccio tutti e si uccide. Nelle ultime settimane del 2019 lo fanno quattro senzatetto, tre in attesa di giudizio. Uno si chiamava Diego Fernando Cardenas. Arrestato a Venezia per droga, aveva provato a tagliarsi le vene alla vigilia di Natale, ma era stato salvato. A santo Stefano ci aveva riprovato e ci era riuscito, impiccandosi con i lacci delle scarpe. Aveva 33 anni ed era nato il giorno di Natale, i compagni dicono che l’idea lo rattristasse.

Febbraio A metà mese si registrano i primi focolai di covid-19 in Italia. Ma in carcere anche in fatto di virus le lancette vanno tirate indietro: ad Agrigento ci sono venti casi di tubercolosi, mentre in generale il contagio più diffuso riguarda l’epatite c. Nel giro di pochi giorni la paura cresce. Niente più trasferimenti di detenuti da e per Torino, Milano, Padova, Bologna e Firenze. A Bologna sono sospese le visite dei familiari. A Padova la polizia penitenziaria chiede “celle chiuse”. Le otterrà, come via via nel resto degli istituti del paese. Niente più volontari o familiari.

Marzo La domenica in carcere è un giorno vuoto, senza visite o attività, senza colori. C’è la messa, per chi ci crede, e il letto per tutti gli altri. L’8 marzo è una domenica diversa. Decine di proteste e rivolte esplodono in 49 istituti. La miccia è accesa il 7, l’incendio va avanti fino al 9. “È il frutto di un’accumulazione combustibile sulla quale cade finalmente una scintilla: e la scintilla qui era, sul sovraffollamento, sulla malattia, sulla miseria igienica, l’avvento del panico dell’epidemia”, scrive Adriano Sofri. Muoiono quattordici detenuti, nove a Modena. Secondo le autorità tutti per overdose dopo aver rubato farmaci e metadone nelle infermerie. Con il passare delle settimane si diffondono le storie di violenze e ritorsioni da parte della polizia, di detenuti picchiati o minacciati dopo le rivolte. Il ministro della giustizia Alfonso Bonafede non dice una parola per giorni.

In galera l’isolamento sanitario ha poco di sanitario e molto di isolamento: una cella da dove non si può uscire se non per l’ora d’aria

Aprile Dall’inizio della pandemia si fanno molti conti. Si contano i casi di covid-19 nel paese, si contano i morti, si contano i giorni di lockdown. Si contano gli scarcerati grazie al decreto cura Italia, ai motivi di salute e ai permessi per chi è in semilibertà: quattromila persone. Tra loro non c’è Vincenzo Sucato, 76 anni, accusato di associazione mafiosa, cardiopatico, diabetico e con problemi ai polmoni: chiuso nel carcere la Dozza di Bologna, in attesa di giudizio, è il primo morto per covid-19 tra i detenuti. Qualcuno si prende la briga di contare anche il numero dei bambini in cella. Il 1 aprile ce ne sono 55, hanno meno di tre anni e sono dietro le sbarre con le madri. Mentre si pensa a cosa fare di loro, il 6 aprile i detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere protestano per chiedere mascherine e protezioni. Rientrano pacificamente nelle celle, ottengono “calci, pugni e colpi di manganello” da “circa 400 agenti di polizia penitenziaria”. Cinquantasette agenti saranno indagati.

Maggio Riaprono bar, negozi, musei, parrucchieri e palestre. Riprendono le messe. I carceri rimangono chiusi a famiglie e volontari. Secondo il garante nazionale dei detenuti il 1 maggio ci sono 159 casi di covid-19 tra i detenuti e 215 tra il personale penitenziario. Da marzo sono uscite di galera quasi ottomila persone. Rispetto ai primi mesi del 2019, i delitti sono diminuiti.

Giugno Dal 3 ci si può spostare tra le regioni, dal 12 riaprono le discoteche. A Rebibbia, a Roma, entra un detenuto positivo asintomatico. Paolo B. ha dei contatti con lui e per questo è messo in isolamento sanitario. Solo che in galera l’isolamento sanitario, si può capire, ha poco di sanitario e molto di isolamento: una cella da dove non si può uscire se non per l’ora d’aria. Per Paolo B. è la seconda esperienza del genere. Al termine del primo isolamento sanitario, un mese e mezzo prima, aveva provato ad ammazzarsi. Ora ci riprova. Il 6 giugno lo trovano impiccato. Prima di lui, e per i motivi più diversi, dall’inizio dell’anno si sono uccisi altri 21 detenuti in tutto il paese. Due in isolamento sanitario come Paolo B.

Luglio “In questi giorni di caldo tanti istituti hanno le sezioni per i detenuti chiuse venti ore al giorno. In questo senso è famosa la cella 55 del carcere di Poggioreale dove ci sono 14 detenuti in una stanza con una finestra”, Samuele Ciambriello, garante dei detenuti in Campania. A fine luglio in tutta Italia ci sono 53.619 detenuti. In 24 istituti il sovraffollamento supera il 140 per cento. A Latina è del 197,4 per cento.

Agosto Nei penitenziari di Sulmona, Augusta e Santa Maria Capua Vetere manca spesso l’acqua. Quando c’è, esce dai rubinetti gialla. A Bologna una bimba rimane quattro giorni in una cella di isolamento con la mamma. Entrambe sarebbero dovute andare in un istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam), che però sono solo cinque in Italia, o in una casa famiglia, dove non c’è posto per loro.

Settembre In Campania si vota per le regionali. In carcere lo fanno 48 detenuti su circa mille che ne hanno diritto. Nel 2018 erano stati 120. “I detenuti non sono incentivati a votare perché nessuno si occupa di loro”, dice Annamaria Ziccardi, presidente dell’associazione Carcere possibile. A Poggioreale, una delle strutture più grandi in Europa, votano in tre, mentre nelle celle si fa i conti con la scabbia e la sifilide.

Ottobre Secondo un sondaggio Swg il 37 per cento degli italiani vorrebbe che nel paese fosse reintrodotta la pena di morte per i reati gravi. Nel 2017 erano il 35 per cento, nel 2015 il 25 per cento.

Cinquantacinque detenuti si sono uccisi, di molti non si conoscono i nomi, di tutti ci si dimenticherà presto

Novembre Dal 29 ottobre al 29 novembre il numero di positivi tra personale penitenziario e detenuti è passato da 350 a 1.829. Riccardo Arena pubblica una parte della lettera ricevuta da Radio Radicale: “Noi detenuti viviamo ogni giorno nel terrore di essere contagiati dal virus e di morire qui dentro. In queste celle sovraffollate è impossibile rispettare il distanziamento e non abbiamo mascherine o gel disinfettante”. A Torino uno di loro ha il diabete e il covid-19, lo curano con la tachipirina. Tremila potrebbero chiedere i domiciliari, ma 1.100 non hanno una casa.

Dicembre In Italia sono ancora chiuse in galera circa 53mila persone, i posti disponibili sono ancora 47mila. Restano in cella, con le madri, 34 bambine e bambini. Cinquantacinque detenuti si sono uccisi, di molti non si conoscono i nomi, di tutti ci si dimenticherà presto.

Alla vigilia di Natale nel carcere di Terni c’è stato un black out. La luce è andata via nel tardo pomeriggio e l’istituto è rimasto al buio per tre ore. I detenuti non erano ancora nelle loro celle, la polizia dentro non trovava le torce e quella fuori aveva circondato la struttura pronta al peggio. Ci si aspettava il peggio da un carcere in tilt: ma il peggio non arrivava, il peggio era già lì, il peggio era il carcere stesso. Giusta immagine, e terribile, per chiudere il 2020 e per sintetizzare la risposta alla domanda iniziale: il coronavirus ha cambiato il modo di concepire la galera? No, l’anno appena passato lo dimostra.

In dodici mesi sono uscite di galera qualche migliaio di persone, dimostrando che non c’era bisogno di tenercele: l’Italia non è diventato un paese in mano alle bande. Sarebbe facile tirarne altre fuori, perché condannate per piccoli spacci o furti che meriterebbero misure alternative in grado di farle tornare a lavorare o a studiare, perché costrette all’illegalità dalle leggi sull’immigrazione, perché malate, perché in attesa di giudizi che arriveranno dopo anni. Si conserverebbe intatto il senso della giustizia e forse anche un po’ d’immaginazione, perfino di dignità, anche se per moltissime persone associare la parola dignità alla prigione è impensabile, per alcune prima ancora di pensarci, per molte anche dopo averci pensato.

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