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In carcere per scambio di persona. Ma i Pm di Palermo chiamano come teste i due ufficiali sudanesi che lo torturarono

Come riferisce il suo difensore, l’avvocato Michele Calantropo: «sono coloro che l’hanno massacrato di botte per venti giorni e l’hanno consegnato ai loro capi chiedendogli ventimila euro per liberarlo»

«I due agenti sudanesi che sono stati ammessi come testi dalla Corte d’Assise di Palermo sono coloro che l’hanno massacrato di botte, torturato per venti giorni e sono quelli che l’hanno consegnato ai loro capi chiedendogli ventimila euro per liberarlo».

Così spiega a Il Dubbio l’avvocato Michele Calantropo, difensore del rifugiato eritreo molto probabilmente confuso con il vero trafficante di esseri umani. Ebbene sì, il Pm di Palermo ha voluto ascoltare come testi i due agenti del Sudan e la Corte d’Assise di Palermo presieduta da Alfredo Montalto li ha ritenuti rilevanti.

Ma chi sono i due ufficiali sudanesi che verranno a testimoniare il 18 marzo contro il ragazzo eritreo Medhanie Tesfamariam Berhe arrestato il 24 maggio del 2016 in Sudan, estradato in Italia il 7 giugno del 2016 e rinviato a giudizio qualche mese dopo con l’accusa di traffico di persone e di essere Medhane Yehdego Mered, ritenuto uno dei più grandi trafficanti di esseri umani sulla cosiddetta “rotta libico- subsahariana” e al centro di indagini condotte dalla stessa procura sui trafficanti coinvolti nella strage di Lampedusa del 2013?

I due agenti appartengono al Niss, acronimo di National Intelligence and Security Service. Parliamo della principale arma di repressione del brutale regime islamico del Generale Omar Al Bashir, sul quale pende un mandato di arresto internazionale per crimini contro l’umanità in Darfur.

L’ammissione come testi da parte del giudice della Corte d’Assise ha fatto irritare anche Amnesty International dichiarando che la decisione del giudice è inaccettabile per un Paese democratico, sottolineando che «qualsiasi tipo di collaborazione giudiziaria tra l’Italia e la polizia sudanese è moralmente inaccettabile».

Basta infatti leggere il rapporto di Amnesty ed è da far venire la pelle d’oca. In Sudan le forze di sicurezza hanno preso di mira esponenti di partiti politici d’opposizione, difensori dei diritti umani, studenti e attivisti politici, sottoponendoli ad arresti e detenzioni arbitrari e ad altri abusi. Le libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica sono state arbitrariamente limitate.

Negli stati del Darfur, del Nilo Blu e del Kordofan del Sud la situazione umanitaria e della sicurezza è rimasta disastrosa, con diffuse violazioni del diritto internazionale umanitario e delle norme internazionali sui diritti umani. La Niss coordina le azioni terroristiche delle milizie islamiche Janjaweed che massacrano i sudanesi di origine africana nel Darfur con lo specifico intento di sterminare anche i gruppi etnici Fur, Masali e Zaghawa, secondo quanto sostiene la Corte Penale Internazionale e molti ufficiali della Niss sono indagati proprio dalla corte internazionale stessa.

A questo si aggiunge il dramma del contenimento degli immigrati tramite accordi bilaterali. L’arresto del giovane è da inquadrare, almeno cronologicamente, in quella cooperazione pratica di polizia che nel 2016 l’Italia stava sviluppando con particolare riferimento al Sudan, ritenuto nodo strategico dei passaggi verso la Libia ed il Mediterraneo. Parliamo del famoso memorandum che prevedeva degli accordi per contrastare le partenze dei migranti irregolari ( in realtà profughi in fuga, molti provenienti dall’Eritrea, diretti verso l’Europa) per stabilire una collaborazione di polizia nella caccia ai trafficanti che dal Sudan, in quel periodo, riuscivano a controllare la rotta libica.

L’avvocato Calantropo tiene a specificare a Il Dubbio che però «tale accordo non prevedeva assolutamente una collaborazione giudiziaria». Infatti, il Memorandum contiene una clausola specifica in base alla quale la stessa intesa non produce effetti in materia di estradizione e di mutua assistenza giudiziaria in materia penale. Ma, come dimostra anche il caso del giovane eritreo Mered, in realtà la collaborazione tra autorità italiane e polizia sudanese avviene anche dal punto di vista giudiziario e certamente si può pensare che ciò avvenga in un quadro normativo non assolutamente certo e privo- in Sudan – di qualsiasi garanzia per i diritti di difesa

delle persone indagate. Un quadro, quindi, devastante se si pensa che i rapporti delle Nazioni Unite hanno confermato il grado di collusione tra le forze di polizia e le organizzazioni di trafficanti che in Sudan garantivano il passaggio di migliaia di persone in fuga dal Corno d’Africa. Con torture annesse.

Nonostante questo quadro devastante il 18 marzo due esponenti delle forze di sicurezza del regime di Bashir ( ricercato dalla corte penale internazionale) testimonieranno contro il giovane eritreo che ha subito torture proprio da loro. Come reagirà trovandosi a faccia a faccia con il loro aguzzini in un’aula di tribunale? Mered, infatti, non ce la fa più. Sono oramai tre anni che è rinchiuso in carcere e non riesce a capire come mai – nonostante le prove che con grande sacrificio, anche economico, haprodotto l’avvocato Calantropo – lui sia ancora ritenuto il famigerato trafficante. E di prove che lo scagionerebbero ce ne sono tante, anche se alcune non sono state ammesse dalla Corte.

Dal 2016 ad oggi, come spiega l’avvocato, la magistratura di Palermo non sarebbe stata in grado di trovare testimoni che possano rivelare che il rifugiato eritreo sia realmente il noto trafficante Medhanie Yehdego Mered. Eppure è ancora accusato e rinchiuso in carcere ( l’istanza di scarcerazione è stata recentemente respinta dal giudice), nonostante le due prove del Dna e la perizia fonica eseguita proprio dal perito del tribunale che ha dichiarato incompatibile la voce del giovane eritreo con quella del vero trafficante.

La prima prova che discolperebbe Mered è stata fatta prelevando un campione del Dna al figlio del vero trafficante, Raei Yehdego Mered, che vive in Svezia assieme alla moglie del criminale. Un test che non lascia dubbi: il giovane eritreo non è il padre. Un secondo test del Dna è stato condotto sulla madre dell’indiziato, Meaza Zerai Weldai, che ha viaggiato da Asmara fino a Palermo nell’ottobre 2017 per sottoporsi al test. Le analisi dimostrano che Weldai è la madre del detenuto. Tra Weldai e il vero trafficante non vi è alcuna relazione di parentela. Il primo di questi test è stato però rifiutato dal tribunale di Palermo.

L’avvocato Calantropo ha aggiunto: «Il tribunale ha respinto il teste che ha visto il vero trafficante dopo l’arresto del mio cliente». Su questa vicenda c’era stato anche uno scontro tra procure. Mentre per i pubblici ministeri di Palermo il giovane è il trafficante, per la procura di Roma il ‘ generale’ è un altro uomo ed è stato un pentito a rivelarlo. Si tratta di un complice dei trafficanti condannato a dieci anni: Haile Seifu, questo è il suo nome, aveva riconosciuto Mered in tutt’altra persona, l’uomo col crocifisso che era raffigurato sul profilo Facebook della moglie del ‘ generale’.

Damiano Aliprandi

da il dubbio

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