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Carcere: Quella sete di punizione che resiste pure al virus

Urge decongestionare gli istituti, ma tanti invocano nuovi reati. Mentre UCPI, Giudici e Accademia evocano l’enorme rischio dei contagi dietro le sbarre, c’è chi pregusta editti ad hoc per disordini in cella e non solo

Un’idea, un concetto, un’idea Finché resta un’idea è soltanto un’astrazione.

Per capirsi, nell’ordine.

Il 15 marzo le Presidenti del Tribunale di Sorveglianza di Milano e di Brescia ( due donne con le idee chiare, che nascono dall’esperienza materiale delle cose) scrivono al ministro ( viene anche indicata l’ora, le 15,30, perché non resti un non detto), denunciando ciò che si sa ( in carcere il virus entra, è già entrato, entrerà sempre di più; il carcere è poroso, non si possono ergere altri muri) e quel che si può fare. Tra le tante, “una detenzione domiciliare speciale per coloro che hanno pena residua inferiore ai 4 anni”.

Nessuna risposta. Seguono indicazioni dell’Ucpi, che da giorni meritoriamente “interroga” il nostro, invano, offrendosi per scrittura di testi utili e chiari, e così l’Associazione italiana dei Professori di diritto penale. Intanto, la rassegna quotidiana di Ristretti orizzonti ci consegna giorno per giorno il bollettino sanitario. Nel frattempo, al contrario c’è chi ha idee luminose; si va dall’estensione del regime differenziato, proposta da alcune sigle sindacali dopo le rivolte di inizio marzo, a quella di introdurre “specifici delitti di danneggiamento e sommossa, con previsione di aggravanti speciali per i reati ( resistenza, lesioni, etc.) se commessi ai danni della Polizia penitenziaria e all’interno di Istituti di detenzione e pena”, al fine di “riportare la disciplina nelle carceri”, anche individuando “specifici protocolli di sicurezza distinti per tipologia di detenuti”. Dal doppio binario al trattamento à la carte. Il proponente delle magnifiche sorti e progressive indica ancora una strada; siccome “non esiste ancora un piano strategico sulla questione carceraria a distanza di due mesi dalla dichiarazione dell’emergenza sanitaria”, occorre verificare “la possibilità di riutilizzare Istituti dismessi come Pianosa o l’Asinara”. E ancora ( da un inquirente a un altro): il Dl 18/ 2020 è un indulto mascherato, una resa dello Stato, ma c’è chi ha un’idea ancor più originale. Siccome tout se tient,

a chi viola le limitazioni agli spostamenti stabilite dal governo occorre rispondere con l’arresto in flagranza e l’introduzione di una nuova fattispecie penale, poiché “la magistratura e la società tutta devono prendere spunto da questa grave vicenda emergenziale per affrontare un nodo irrisolto dalla odierna vita politico- sociale: il sistema giustizia è in grado di affrontare gravi problemi di sicurezza nazionale? Ieri l’altro il terrorismo e la mafia, e ancora ieri la corruzione e oggi il contenimento dell’epidemia”.

Lo Stato di eccezione. Da Cosa nostra alle mazzette, e poi al pipistrello. Geniale, come abbiamo fatto a non pensarci prima?

Non basta; per far finta di essere sani occorre leggere anche che il carcere è “ambiente difficilmente permeabile dall’esterno rispetto a quello, sicuramente più rischioso del domicilio ove risiedono soggetti non ristretti e, quindi, liberi di avere contatti, sia pure limitati, con contesti potenzialmente infetti”, e dunque ( con parere “assolutamente contrario” del pm) “si rigetta l’invocata sostituzione della misura in atto”. Così un giudice per le indagini preliminari.

Del resto, il legislatore di urgenza non chiama in causa chi dispone della libertà dei presunti innocenti. Del resto, per loro si prevede la sospensione dei termini di fase di custodia cautelare. C’è il virus ( il vairus, come dice quello), dovevi pensarci prima!

Siamo un Paese così, dove nelle sale di attesa si legge che “è severamente vietato fumare”; occorre un avverbio per far comprendere il divieto. Lo chiamano “distanziamento sociale”; così si legge nella claudicante grammatica normativa di questi tempi, così nella vulgata claustrofobica di questa primavera impazzita. Un ossimoro. Lontano dagli occhi, lontano da cuore.

Ma la verità è un’altra: mentre noi ce ne stiamo nelle nostre case ( per chi la casa ce l’ha), trasfor-miamo i nostri lavori ( per chi un lavoro ce l’ha, o ce l’ha ancora) in moderne postazioni smart, mentre facciamo ginnastica o yoga sui tappetini in terrazza, ché nei giardini è vietato, mentre lentamente ci assuefacciamo alla distanza, sorvolati dai droni, c’è chi pensa si possa regolare i conti tra buoni e cattivi. Una logica del gregge intramoenia, e poco importa se questo è inumano, pericoloso, criminogeno, folle.

Torneremo a votare ( in remoto?), e bisogna tenere la linea. Qualche chilo in più, che la cattività non paga, ma la faccia feroce resta quella. Speriamo che anche lo specchio di lorsignori non menta, e restituisca il ghigno pavido, la banalità del male, l’intollerabile presenza di sé.

Michele Passione

da il dubbio

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La bomba carceraria e i suoi artificieri

Il Covid-19 è entrato nelle carceri (15 i casi accertati) e tarda un vaccino che tolga al virus la sua corona. Dunque, gli istituti di pena sono una bomba epidemiologica.

Difficile disinnescarla: igiene personale, distanziamento, sanificazione, isolamento, sono chimere nella «promiscuità coatta di celle sature di corpi, liquidi e secrezioni, eiezioni e sudori» (Manconi). Eppure si deve. E se non vi basta l’obbligo costituzionale di garantire, anche a Caino, il diritto alla salute (e alla vita), siate mossi almeno da un altruismo interessato.

Perché il problema riguarda detenuti e detenenti (58.592 i primi, 45.000 i secondi), con relative famiglie. Perché i tanti reclusi con patologie pregresse saranno vettori del contagio e graveranno, piantonati fino al decesso, su ospedali collassati. Perché – lo si è visto – le carceri sono «luoghi di potenziale esplosione non solo del contagio, ma anche della rabbia autodistruttrice» (Palma). Dagli istituti di pena il virus può evadere, invadendoci.

Che fare? Servono misure anche inedite, in grado di contenere i flussi in entrata e di agevolare una controllata decarcerizzazione. Non sono sufficienti quelle del decreto legge “Cura Italia”: stimati in 3.000 i detenuti in uscita, finora il Guardasigilli ne ha contati 200 (in media 1 per ognuno dei 189 istituti penitenziari). Né basteranno i 1.600 telefonini acquisiti, le 200.000 mascherine distribuite, i 770.000 guanti monouso forniti, i dichiarati 2.600 braccialetti elettronici disponibili, le 145 tende pre-triage all’ingresso dei penitenziari. Serve ben altro, e ciascuno deve fare la propria parte: in Costituzione si chiama leale cooperazione istituzionale. Lavarsene le mani, da gesto di quotidiana profilassi, tornerebbe ad essere il segno di una scelta pilatesca.

I giudici privilegino interpretazioni dall’efficace portata deflattiva. Tradotto, significa ridurre la custodia cautelare ad extrema ratio, superare le (spesso eccessive) cautele nella concessione delle misure alternative, ricorrere ai domiciliari anche in carenza di braccialetti elettronici (come insegnano le sezioni unite di Cassazione), sperimentare nuove interpretazioni dei casi di differimento della detenzione.

Le Camere, nel convertire il decreto legge n. 18 del 2020, introducano misure deflattive automatiche e tempestive a favore di detenuti che abbiano già dato prova di «accertata e consolidata meritevolezza» (Giostra): ne fa un’utile silloge il recente documento dell’Associazione dei docenti italiani di diritto penale.

Vano è invocare una legge di amnistia e indulto. La maggioranza dolomitica necessaria, voto per voto, è pari ai due terzi dei parlamentari: una quota preclusa da ragioni sanitarie, prima ancora che politiche, per un Parlamento che rinuncia a deliberare in remoto. Sarebbe però utile il deposito di una proposta di revisione dell’art. 79 della Carta: la si presenti oggi, affinché domani «la razionalità si prenda la rivincita sulla demagogia» (Pepino).

Se è lecito dire, anche Corte costituzionale e Quirinale possono molto.

La Consulta assicuri corsie preferenziali a decisioni in tema di esecuzione penale. Su tutte, il differimento della pena per sovraffollamento, la cui assenza nel codice penale è certamente incostituzionale (come riconobbe la sent. n. 279/2013).

Un giudice riproponga la quaestio, e la Corte potrà fare la sua parte.

Il Capo dello Stato (come suggerito da Corleone) eserciti il suo potere di grazia, anche parziale e condizionata, in chiave umanitaria a correttivo di una pena che minaccia diritti indisponibili. Come in passato, la conceda cumulativamente, compensando l’impossibile clemenza collettiva. È una sua prerogativa che il Guardasigilli non può ostacolare. Signor Presidente, saggiamente, la usi: se non ora, quando?

Andrea Pugiotto

da il manifesto

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