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Carcere: la storia di Eneas e quella paura della “società fuori” di cui nessuno si cura

Anas Zanzami, per tutti Eneas, 29 anni. Ragazzo di origine marocchina, sempre sorridente e giocherellone, così lo raccontano i suoi amici. Una condanna per falsa identità e resistenza a pubblico ufficiale da scontare in carcere nonostante la legge del 2010 – «Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a diciotto mesi» – preveda la detenzione domiciliare. Per lui però non vale: si aprono così le porte del carcere di Pesaro. Le condizioni strutturali dell’istituto di pena, ci informa l’Associazione Antigone, non sono buone. Celle inagibili a causa delle infiltrazioni d’acqua e sovraffollamento del 150%. Inoltre non c’è la possibilità di frequentare corsi di formazione professionali.

Eneas – raccontano i suoi amici – era in Italia dall’età di 6 anni e aveva frequentato le scuole pubbliche e dopo anni di lotta era riuscito ad ottenere la cittadinanza italiana proprio il giorno del suo arresto. In quella occasione aveva fornito una falsa identità e si era opposto alle forze dell’ordine proprio per paura di perdere quella cittadinanza faticosamente acquisita. In cella da cinque mesi, sette ancora da scontare, Eneas non ce la fa e, secondo la versione ufficiale della Casa Circondariale di Villa Fastigi, la notte tra il 24 e il 25 settembre del 2015 si suicida. Partono però le indagini per istigazione al suicidio da parte del Ministero della Giustizia che, dopo 4 lunghi anni, sono ancora in corso. La Procura chiede l’archiviazione, ma gli amici e le amiche di Eneas e la tenacia dell’avvocato difensore Fabio Anselmo (già noto per i casi Aldrovandi, Cucchi e Uva) si oppongono e rifiutano l’archiviazione.

«Vogliamo la verità, il caso non può essere archiviato» grida Giuseppina del centro sociale Anna Campbell, spazio popolare a poche centinaia di metri dal carcere dove Eneas è stato trovato impiccato. Eneas doveva essere sorvegliato a vista, «invece proprio nel momento della morte c’è stato un vuoto di un quarto d’ora. Perché questo buco nella sorveglianza?», si chiede Giuseppina. Determinati e decisi, gli amici di Eneas continueranno a presidiare le udienze del processo, in attesa di una nuova data.

Scioccanti le parole di Eneas nella sua ultima lettera spedita dal carcere di Pesaro, in cui emerge il terrore psicologico indottogli dalla reclusione e i timori sulla sua fine: «Hanno iniziato – scrive in questa missiva inedita – a farmi la guerra a modo loro. Mettere più medicine nel cibo, assoldare il mio compagno di cella per farmi uccidere di notte e comprare gli altri». E infine, le ultime parole, un grido d’aiuto, arrivato però troppo tardi:«Per favore aiutami salvami… ho 28 anni voglio vivere ancora».

Il 18 giugno sapremo cosa deciderà il Gip. Il caso di Eneas è solo una delle tante morti in carcere in circostanze sospette e a pochi mesi dalla scarcerazione. Perché, contrariamente a quanto si possa pensare, il dato inaspettato è quello che misura la distanza temporale tra il gesto (suicidio, autolesionismo) e il fine pena. Chi è più a rischio, dunque, non è l’ergastolano o chi ha condanne lunghissime, ma chi è prossimo alla (nuova) libertà: è la società fuori dalle sbarre che mette ansia e paure. Se prendiamo i dati del Garante dei detenuti, riferiti al 2018, i suicidi in carcere sono stati 64 (sebbene il Ministero della Giustizia ne conti solo 61), nel 2017 furono 50 e 40 nel 2016; i tentati suicidi registrati sono stati 1.197, mentre gli atti di autolesionismo – decisamente in aumento – sono passati dai 6.889 del 2014 ai 10.368 dello scorso anno. Decisamente troppi per un’istituzione che, in teoria, dovrebbe “rieducare” i detenuti.

Intanto il 25 maggio, si è tenuto un presidio al carcere di Viterbo, in solidarietà ai detenuti e ai loro familiari lì reclusi, a cui hanno partecipato gli amici di Eneas, perché – ci dicono – «parlare di carcere è sempre più necessario». Il carcere di Viterbo è tristemente noto, grazie alle lettere dei prigionieri, per i maltrattamenti e gli episodi di razzismo denunciati dai detenuti. «Lo abbiamo chiamato “presidio del maggio” – dicono gli organizzatori – perché, come cantava Fabrizio De Andrè, “anche se vi credete assolti, sarete per sempre coinvolti”».

Valerio Guzzo

da Il Paese Sera

 

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