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Carcere duro e carcere a vita. Se abolire può essere utile

La paura è merce di scambio. Nelle campagne elettorali vale più del pane. La paura percepita, in termini di propaganda, viene scambiata con la sicurezza promessa. Una promessa di sicurezza è però del tutto vacua e menzognera se non si basa su una visione complessiva e dinamica della giustizia. Altrimenti la sicurezza viene agitata come un prodotto da esposizione, come l’etichetta da appiccicare a provvedimenti che hanno contenuto molto più ristretto, vessatorio e opinabile, oltre che spesso difficilmente applicabile (buoni ultimi, il decreto legge 17 Febbraio 2017, n. 13, e la legge 13 Aprile 2017, n. 46).

L’oggettiva novità del circuito politico italiano è che finalmente la discussione sulla giustizia può essere ricondotta alla sua dimensione sostanziale. Non c’è più soltanto una proposta sulla giustizia stritolata tra l’incudine del legalismo ipertrofico e giustizialista e il martello delle convenienze di bottega.

In modo sorprendentemente innovativo, per un Paese che sui diritti tende a ragionare in modo rinunciatario, compromissorio e vessatorio, una lista che presenta propri candidati alle prossime elezioni politiche (“Potere al popolo!”) ha verbalizzato nel proprio programma l’abolizione dell’ergastolo e del regime detentivo previsto all’articolo 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario.

Questi temi sono spesso stati patrimonio di discussione occasionale tra i giuristi, spesso confinati in posizioni minoritarie a sostenere quello che per la convenienza personale e gli umori peggiori dell’opinione pubblica sarebbe da esecrare e condannare. Fare delle condizioni di detenzione e di pena tema della discussione collettiva è segno di grande freschezza argomentativa e di non comune schiettezza. La percezione diffusa del popolo italiano va ovviamente in altra direzione: criminalità e microcriminalità andrebbero combattute con più pene, più leggi, più carceri; i detenuti devono stare “dentro” e non contare quanto loro manchi per tirarsene “fuori”.

Persino in materia di mafia e antimafia, le idee sono confuse, sollecitano e solleticano prese di posizione trite e ritrite. Per “mafia” finiamo per intendere soltanto una dimensione della criminalità mafiosa, incistatasi nell’immaginario collettivo per momenti di grande drammaticità corale (ad esempio: l’uccisione di Falcone e Borsellino), poi, però, traditi da rivisitazioni teatrate e poco partecipate. Il crimine predatorio e il crimine cruento hanno facce, braccia e manifestazioni spesso sconosciute e imprevedibili. Proviamo a partire dalla realtà, per cercare di comprendere se la proposta politica di “Potere al popolo!” possa essere condivisa e diventare un nuovo modo di partecipare la giustizia.

L’ergastolo è una pena detentiva a carattere perpetuo. La Corte Costituzionale italiana si è dovuta misurare in più circostanze sul tema della compatibilità tra la pena dell’ergastolo e l’articolo 27 della Costituzione, in particolar modo in riferimento alla natura delle pene che “devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Persino in pronunce che hanno perorato la legittimità costituzionale dell’ergastolo (n. 403/1993, prima ancora n. 264/1974), il disagio interpretativo veniva alla luce in tutta la sua evidenza. Può davvero avere finalità rieducativa la pena perpetua? Non è allora giusto temperarla almeno con la possibilità di svolgere attività lavorativa o di allontanarsi in modo circostanziato dal luogo di detenzione? E ha davvero utilità special-preventiva l’ergastolo, nel momento in cui esso affligga un soggetto malato o inidoneo alla reiterazione del reato o che abbia almeno già scontato una parte significativa della pena? È come se la giurisprudenza avesse sempre riconosciuto i profili di illegittimità dell’ergastolo, accettandone poi l’esistenza per non sembrare passivi, troppo tolleranti, inefficaci.

L’ergastolo è mano a mano divenuto residuale in molti ordinamenti democratici: anche i Paesi dove la detenzione a vita non è formalmente abrogata hanno adottato dei temperamenti specifici, che stanno dando ottimi frutti nella prevenzione di tutti i delitti che con la pena dell’ergastolo erano puniti – si vedano in proposito la Germania e la Danimarca.

L’abolizionismo è premiato persino in ordinamenti dai trascorsi politici tempestosi (Portogallo, Bosnia, Serbia, Croazia). Paesi che resistono stoicamente, nonostante ondate politiche panpenaliste siano da tempo sui radar degli osservatori internazionali e degli studiosi del diritto comparato.

Quanto al 41-bis, la sua eliminazione dall’ordinamento penitenziario appare inscritta e necessitata in due recenti controversie giurisdizionali che hanno riguardato l’Italia. Nel 2007, gli Stati Uniti – noti per una certa discontinuità localistica della normativa penitenziaria – hanno rifiutato di estradare nel nostro Paese un esponente dei cartelli siculo-americani, proprio perché in Italia sarebbe stato assegnato al regime detentivo del 41-bis, ritenuto dal giudice dello Stato estero assimilabile alla tortura.

Nel 2013, la Corte di Strasburgo si intestava di rivolgerci un monito ben preciso per la risoluzione a breve e a lungo termine della questione penitenziaria (cd. sentenza pilota, Torreggiani e altri c. Italia).

Nella condanna del nostro Paese per trattamenti inumani e degradanti, peraltro vietati dallo stesso disposto costituzionale, ben possono rientrare purtroppo le condizioni afflittive del 41-bis. Il sistema ha l’ulteriore demerito, nonostante la recente circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, di essere esposto a criticità sistemiche locali che dipendono da direzione e contesto del concreto istituto di pena. Non dalla sicurezza, non dalla libertà, non dalla giustizia.

Il 41-bis nasce come strumento emergenziale, col decreto legge Martelli-Scotti, 8 Giugno 1992, n. 306, per come emerge sin dai lavori preparatori: misura a tempo, eccezionale, tarata a specifica contingenza esterna. Trasformarlo in emblema della legalità non ha portato a grandi risultati. Ha forse dato impulso a collaborazioni di giustizia che sono, però, spesso da riscontrare quanto alla loro veridicità fattuale, prima che quanto alla loro intenzione ideale (la quale non costituisce parametro legislativo di fondatezza).

Il 41-bis, inoltre, è applicato anche avverso fattispecie delittuose estranee al contrasto alla mafia, come il terrorismo. Misura perciò deleteria per gli imputati di appartenenza ad associazioni sovversive (art. 270 Codice Penale): il contesto sociale, prima ancora di quello criminoso, ha reso queste ipotesi particolarmente residuali. E misura controproducente anche in materia di lotta al terrorismo fondamentalista. Favorisce la compartimentazione dei detenuti per ragioni affini e il loro più incisivo presentarsi come blocco unitario nel promuovere fenomeni di radicalizzazione in soggetti detenuti ad altro titolo.

Una lista elettorale che tiene la barra alta su temi del genere fa servizio non solo a sé o ai suoi elettori, ma alla discussione pubblica e alla sicurezza collettiva integralmente considerate.

Domenico Bilotti

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