Menu

Il blocco stradale nel “decreto Salvini”

Appunti di breve e lungo periodo in risonanza tra Italia e Francia

In questi anni si è assistito ad una grande precarizzazione del mondo del lavoro. Ma, ad un elenco interminato di nuove forme di schiavitù, è corrisposta l’emergenza di nuove soggettività e la relativa rincorsa al loro governo. Niccolò Cuppini affronta in questo contributo una tematica quindi cara alla Criminologia Critica, ovvero la relazione che si struttura tra la forza lavoro e il suo controllo tramite l’uso del diritto penale, evidenziando come l’approvazione del cd. “DL Salvini” possa essere letta utilmente anche in questa dinamica. Buona letturra!

Il blocco stradale nel “decreto Salvini”

Appunti di breve e lungo periodo in risonanza tra Italia e Francia

di Niccolò Cuppini

All’interno del cosiddetto decreto Salvini (su “immigrazione e sicurezza” – sic!) è contenuta una norma sul controllo della mobilità passata piuttosto sotto traccia. Entrato in vigore a ottobre 2018 e convertito in legge a dicembre (in G.U. 03/12/2018, n. 281), il decreto contiene – Art. 23, Disposizioni in materia di blocco stradale – delle modifiche al decreto legislativo 22 gennaio 1948, n. 66, recante “Norme per assicurare la libera circolazione sulle strade ferrate ed ordinarie e la libera navigazione”, che equiparano l’ostruzione dei binari a quella stradale (“le parole «in una strada ferrata» sono sostituite dalle seguenti: «in una strada ordinaria o ferrata o comunque ostruisce o ingombra una strada ordinaria o ferrata»”), ma soprattutto si prevede de facto il ripristino del reato di blocco stradale con pene che vanno fino ai 6 anni. Non è compito di questo articolo ricostruire il dibattito che portò il Legislatore italiano a depenalizzare il blocco stradale nel 1998, certo è che la sua reintroduzione ha una valenza che non va sottovalutata, avendo una potenziale applicabilità immediata ma anche un valore di rilievo più strategico e di lungo periodo. In primo luogo, è parso a molti evidente come questo passaggio del decreto sia stato inserito ad hoc per tentare di ordinare e disciplinare un movimento che da anni ormai scuote il settore della logistica principalmente all’interno della megalopoli padana[1]. C’è tuttavia anche una dimensione più ampia sulla quale agisce la possibilità di incarcerare chi si renda promotore o promotrice di blocco stradale. Le summenzionate lotte nella logistica possono essere infatti interpretate come spia di una più ampia corrente di sottofondo che sta trasformando i sistemi di produzione, la dimensione societaria, così come le soggettività, e che sta ridefinendo complessivamente il quadro a partire da uno specifico paradigma logistico, della circolazione, o se vogliamo della mobilità[2]. Non a caso c’è chi ipotizza che in questo scenario in trasformazione[3] si stia definendo una nuova tipologia di conflittualità sociale definita appunto a partire da tale caratteristica, le circulation struggles[4]. In quest’ottica dunque il decreto Salvini ha una portata di ampio respiro introducendo una misura che colpisce sia lotte in atto che in potenza.

Proviamo ad aggiungere alcuni tasselli a queste considerazioni. La pratica del blocco stradale, cruciale per le lotte italiche nella logistica, ha dicevamo carattere più generale. In un cartello esposto in piazza a Parigi durante la mobilitazione dei gilet jaunes del 26 gennaio c’’era scritto: “Tout le pouvoir aux ronds points”. L’occupazione di tipici snodi della circolazione come le rotonde stradali è stata infatti una delle forme diffuse su tutto il territorio nazionale francese per l’organizzazione del movimento dei gilet gialli. Ha scritto in proposito Toni Negri in un articolo del 4 dicembre 2018 chiamato “L’insurrezione francese”: “A me, piccolo interprete di grandi movimenti, ricorda la rivolta nelle prigioni più che la gioia del sabotaggio dell’operaio massa […]. Nei blocchi stradali che presto si sono estesi alle grandi superfici di distribuzione nelle zone periferiche del paese, il movimento si presenta coeso […]. Quando invece investe la metropoli, si tratta di una vera e propria moltitudine, orizzontale, colorata e… incendiaria”.

Tali affermazioni meritano di essere riprese sotto due profili. Il primo elemento da mettere in rilievo è la dinamica qui descritta con la quale si è articolato tale movimento, con momenti intensivi e diffusi di accumulo di forza a partire dal blocco nelle grandi aree logistiche, alternati a passaggi estensivi di assalto alla metropoli. Il blocco degli snodi della circolazione come le rotonde pare configurarsi dunque come un irradiatore di conflitto – che segnala un deciso scarto rispetto al ciclo dei movimenti del 2011-2013[5] – che si accompagna all’espressione di dinamiche di riot (espropri/saccheggi e duri scontri con la polizia) in luoghi spesso “inaccessibili” per ampie fasce di popolazione come gli Champs-Élysées. Il secondo elemento da considerare è l’immagine che Negri propone per questo movimento: una rivolta delle prigioni. Non è chiaro se il riferimento sia al contesto politico-economico complessivo nel quale si inscrivono i gilets jaunes o alla loro soggettività, ma quel che qui interessa accennare a partire da questa affermazione è il suo risvolto “territoriale”. È infatti noto che nella modernità il riot è iconicamente associato ai tipici luoghi della circolazione, i porti, ed è stato spesso interpretato come una azione orientata all’agire sui prezzi[6] (le “rivolte del pane”), ossia come pratica per riaprire una possibilità di accesso al consumo limitata o preclusa dall’aumento dei prezzi. Nel corso del Novecento il riot è stato invece legato per lo più a un’altra tipologia di luoghi e a un’altra gamma di bisogni, ossia ai ghetti per lo più razzializzati delle metropoli di fronte al contenimento violento della povertà e della disoccupazione ivi racchiusa. Nei decenni più recenti, dai riot di Los Angeles del 1992 a quelli delle banlieue francesi del 2005 fino agli UK riots del 2011 o a quelli di Black Lives Matter negli States, pare che, semplificando, le due dimensioni storiche del riot siano venute convergendo. Si è trattato di rivolte nate in luoghi urbani di marginalizzazione, per lo più “periferici”, tendenzialmente razzializzati, caratterizzate da una doppia istanza di auto-difesa contro il continuo e violento contenimento poliziale ma anche come spinta all’accesso al consumo di metropoli, alla possibilità di accedere a stili di vita che le magnetiche luci metropolitane di continuo mettono in scena.

Si potrebbe allora ipotizzare che nella mobilitazione dei gilets jaunes ci sia un elemento nuovo, legato a doppio filo con una configurazione territoriale (e, dunque, sociale) inedita. Questo scenario, costruito a partire dalla seconda metà degli anni Settanta – riportato ad esempio da Henri Lefebvre con l’espressione di “esplosione dell’urbano” e raccontato magistralmente in un romanzo come Gli anni di Annie Ernaux, o volendo da ricondurre al surrealismo del Millennium People di James Graham Ballard per quanto riguarda il contesto inglese – ci porta su panorami che vanno radicalmente oltre l’urbano e la metropoli, con nomi per descriverli che sono ancora da trovare. La crisi (economica, politica, sociale) che si protrae con una ritmica piuttosto indecifrabile a partire dal 2007/2008 è arrivata a intaccare la relativa stabilità che caratterizzava questa nuova territorialità. E non è un caso che sia stato il tentativo del governo Macron di innalzare il prezzo del carburante a fare da detonatore per la composizione sociale che vive questi luoghi. Questi infatti sono legati a doppio filo “all’automobile”:

“With the transport volume of goods and people expanding, more and more people driving vehicles or being driven are obliged to spend increasing amounts of time in transit. […] Then the (transnational) streetscape and vehicles are places of everyday encounter and experience, and places where, for various reasons, the flow of traffic stops or is interrupted, become operationalized as important places for dwelling-in-transit (rather than as generic non-places): bus terminals, ferry ports, logistics distribution centers, formal and informal markets, or border crossing stations along the corridors”[7].

Il movimento dei gilet è dunque figlio di questa territorialità circolante. Entro la quale il blocco e l’occupazione delle rotonde si è data come “naturale” pratica, come connaturata azione di interruzione di un rapporto sociale, come forma-sciopero contemporanea si potrebbe dire[8]. Questa lotta dai tratti inediti può essere collegata, come fa Negri, all’immagine della “prigione” come suo palcoscenico se in tal modo definiamo questo territorio post-urbano in cui i flussi hanno disegnato una trama di scorrimenti, confini, colli di bottiglia, passaggi, tutta obbligata, tutta incanalata a partire appunto dalla razionalità dei flussi globali che disegna sul territorio una spazialità inscalfibile, una enorme “prigione” a cielo aperto dalla quale non si può uscire e i cui scorrimenti non possono essere messi in discussione[9].

In questo senso la reintroduzione del reato penale per blocco stradale promossa in Italia dal decreto salviniano gioca su uno scenario di lungo periodo in cui le potenziali insorgenze non potranno che partire proprio dalla pratica del blocco, dell’interruzione dei flussi come primo passaggio “obbligato” per esprimersi ed espandersi. Ma, come dicevamo, e per concludere, il decreto prevede  anche una applicabilità immediata. Il carcere per chi pratica il blocco stradale è infatti da subito una minaccia rivolta verso chi di tale pratica ha fatto strumento primo di sciopero all’interno di magazzini con una situazione da molti e molte indicata come di schiavitù[10]. Una “schiavitù postmoderna” fatta di turni di lavoro di 14 ore, dormendo in automobile, guadagnando 600 euro al mese, e venendo continuamente insultati, all’interno di un settore strategico e in crescita come quello della logistica, e di fronte a una massa di mano d’opera abbondante e ricattabile di migranti per lo più di prima generazione – rispetto alla quale prima delle lotte per i datori di lavoro non si poneva nemmeno il tema del pagare l’intera riproduzione della forza lavoro. Questa composizione ha portato e sta portando avanti una lotta che, all’interno di coordinate apparentemente “classiche” di un conflitto lavoro/capitale, parla in realtà di una dimensione ben più ampia: un conflitto che si muove contro il confinamento, contro la “carcerazione territoriale” per come descritta sopra. E ha potuto sfruttare a proprio vantaggio una sostanziale impreparazione, anche immediatamente “spaziale”, delle controparti per poterla arginare. Un esempio paradigmatico è quello dell’Interporto di Bologna, costruito alla fine degli anni Ottanta, quando la lotta di classe si pensava ormai superata. Questa enorme infrastruttura logistica, con decine e decine di magazzini e migliaia di lavoratori, ha infatti incredibilmente un solo punto di accesso. Garantendo dunque la possibilità che con un solo blocco si interrompa l’intero accesso/uscita.

Così come bloccare una rotonda nella nuova territorialità fatta emergere in Francia dai gilets jaunes si configura come dispositivo al contempo di blocco e di organizzazione, allo stesso tempo bloccare un Interporto o un magazzino ha funzionato in maniera analoga nelle lotte logistiche in Italia. Laddove tuttavia non è arrivata l’urbanistica e l’architettura, pare voler intervenire questa nuova legislazione. Gli esiti saranno tutti da verificare. Sicuramente però riflettere su questa nuova dimensione logistica dei territori e dei conflitti sociali è una chiave urgente e strategica per comprendere ciò che sta accadendo.

Cuppini N. (2019), Il blocco stradale nel “decreto Salvini”. Appunti di breve e lungo periodo in risonanza tra Italia e Francia, Studi sulla questione criminale online, consultabile al link: https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2019/02/12/il-blocco-stradale-nel-decreto-salvini-appunti-di-breve-e-lungo-periodo-in-risonanza-tra-italia-e-francia-di-niccolo-cuppini-supsi-scuola-universitaria-professionale-della-svizz/

Note:

[1] Vedi N. Cuppini e C. Pallavicini, Le lotte nella logistica nella valle del Po, Sociologia del lavoro, n. 138, 2015, pp. 210-224; C. Benvegnù e N. Cuppini, Spettri del lavoro. Note sulle lotte logistiche nella megalopoli padana, pubblicato su napolimonitor.it il 17 ottobre 2017.

[2] È quanto, assieme a tante e tanti altre, sta cercando di inquadrare il gruppo di ricerca Into the Black Box: ww.intotheblackbox.com.

[3] Ci si rifà in particolare  K. Moody, On New Terrain: How Capital is Reshaping the Battleground of Class War, Haymarket Books, New York, 2018.

[4] J. Clover, Riot. Strike. Riot. The New Era of Uprisings, Verso, New York, 2016.

[5] Si rimanda in proposito a N. Cuppini, Il rogo e il gelsomino. Il 2011-2013, la forma-riot e le circulation struggles, in A. Senaldi e X. Chiaramonte (a cura di), Violenza politica. Una ridefinizione del concetto oltre la depoliticizzazione, Ledizioni, Milano, 2018.

[6] Cfr. E. P. Thompson, The Making of the English Working Class, Vintage Books, London, 1963.

[7] M. Zinganel, Rhythms of Post-Urbanity: Road-Corridors, Nodes, and Networked Archipelagos, in Into the black box e Cristina Mattiucci (a cura di), Territori logistici, lo Squaderno, n. 51, forthcoming 2019.

[8] Si veda “Macron cede: i Gilet gialli strappano le prime conquiste e rilanciano!” (https://www.infoaut.org/conflitti-globali/macron-cede-i-gilet-gialli-strappano-le-prime-conquiste-e-rilanciano): “uno sciopero di tipo nuovo. Uno sciopero che assume la fine dei corpi intermedi come referenti sociali, che ribalta allo Stato il suo approccio, imponendo la mancanza di rappresentanza del movimento come impossibilità di un suo depotenziamento. Una contrattazione sociale di tipo nuovo, dove una parte di società diventa il proprio sindacato e impone con la forza il proprio punto di vista”.

[9] Si potrebbe anche fare riferimento a una territorialità come quella che indica Baudelaire nel suo Spleen di Parigi: “Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio sullo spirito che geme in preda a lunghi affanni, e versa, abbracciando l’intero giro dell’orizzonte, una luce diurna più triste della notte; quando la terra è trasformata in umida prigione dove, come un pipistrello, la Speranza sbatte contro i muri con la sua timida ala picchiando la testa sui soffitti marcescenti; quando la pioggia, distendendo le sue immense strisce, imita le sbarre d’un grande carcere”.

[10] Si veda F. Massarelli, Scarichiamo i padroni. Lo sciopero dei facchini a Bologna, Agenzia X, Milano, 2014.


 

 

Leave a Comment

You may use these HTML tags and attributes: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>