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Assassinati in America latina oltre 164 ecologisti

Assassinato in Guatemala il leader comunitario Jorge Juc Cucul. L’ultima di una lunga serie di vittime che fanno del paese centramericano quello con il più alto incremento di attivisti dell’ambiente uccisi nell’ultimo anno

Sono stati almeno 164 i difensori dell’ambiente assassinati nel mondo nel 2018, secondo l’ultimo rapporto dell’osservatorio Global Witness, diffuso ieri. E più della metà in America latina, benché sul primo gradino del podio per numero di attivisti uccisi figurino le Filippine, con 30, seguite dalla Colombia con 24 e dall’India con 23.

Ma il dato più impressionante è sicuramente quello del Guatemala, passato dai 3 del 2017 ai 16 dell’anno successivo: un triste balzo in avanti che, in rapporto alla popolazione, rende il Paese centroamericano il più pericoloso al mondo per gli ecologisti. E nulla indica che la situazione sia migliorata nel corso del 2019.

Non a caso, giovedì, è stato assassinato il leader comunitario del Codeca (Comité de Desarrollo Campesino de Guatemala) Jorge Juc Cucul, 77 anni, nel dipartimento di Izabal, da sempre impegnato in difesa della terra e del territorio. E, prima di lui, erano stati uccisi già altri 7 attivisti del Codeca, due dei quali appena il 5 luglio: Isidro Pérez y Pérez di 85 anni e Melesio Ramírez di 70.

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Bolsonaro: licenza di uccidere indios e deforestare l’Amazzonia

Villaggi Waiãpi saccheggiati da garimpeiros, i cercatori di oro e diamanti, ucciso il capo Emyra Waiãpi. E oltre mille chilometri quadrati di foresta andati perduti in un anno

Sulla foresta amazzonica e sui popoli che la abitano l’effetto Bolsonaro non potrebbe essere più tragico. Gli ultimi a farne le spese sono stati gli indigeni Waiãpi, la cui riserva – un’area di 6.000 km quadrati all’interno dello Stato di Amapá – è stata invasa sabato scorso da circa 50 garimpeiros (i cercatori illegali d’oro e diamanti) armati perfino di mitragliatici, appena pochi giorni dopo l’assassinio di un leader comunitario di 68 anni, Emyra Waiãpi.

A darne notizia è stato il senatore Randolfe Rodrigues, dopo aver ricevuto richieste disperate di aiuto dal consigliere comunale e leader locale Jawaruwa Waiãpi. «Il rischio di un conflitto è altissimo», ha denunciato il senatore, evidenziando come gli indigeni si preparino, nel caso non vengano presi provvedimenti, a cacciare i garimpeiros dall’area. «Sparano in strada con fucili da caccia e armi pesanti, occupando di notte piccoli villaggi e aggredendo donne e bambini. Abbiamo molta paura», ha riferito il coordinatore dell’aldea invasa, Viceni Oiampi.
E a dare risalto alla vicenda è stato anche il cantante Caetano Veloso, che, in un video registrato durante la sua tournée messicana, ha chiesto «alle autorità brasiliane, in nome della dignità del Brasile nel mondo, di ascoltare questo grido».

La massima autorità del Paese, tuttavia, resta completamente sorda. Al punto da mettere addirittura in discussione l’omicidio del leader indigeno: non c’è «alcun indizio forte» che sia stato assassinato – ha detto Bolsonaro – malgrado i segni di varie coltellate sul corpo del cacique 68enne, spiegando che esistono «varie possibilità» e che «la polizia federale è lì» per chiarire il caso e «cercare la verità».

Per i popoli originari e i loro numerosi alleati, del resto, è lo stesso presidente ad avere le mani sporche di sangue, incoraggiando invasioni e violenze non solo con commenti razzisti nei confronti degli indigeni – definiti «preistorici» -, ma anche con le insistenti critiche ai processi di demarcazione che, a suo avviso, sarebbero d’intralcio allo sviluppo economico, e con l’aperta difesa dello sfruttamento minerario in aree indigene, benché espressamente proibito dalla Costituzione. E di uno sfruttamento della biodiversità brasiliana «in partnership con il primo mondo», ha parlato proprio sabato scorso, giustificando in tale prospettiva il suo «avvicinamento agli Stati Uniti» e la sua necessità di «una persona di fiducia all’ambasciata brasiliana» a Washington, ossia suo figlio Eduardo, sulla cui indicazione deve però ancora pronunciarsi il Congresso.

Bolsonaro, il «peggior nemico» dei popoli indigeni secondo il Coiab, il coordinamento delle organizzazioni indigene dell’Amazzonia brasiliana, è accusato, insomma, di dare carta bianca agli invasori: «Quando in una regione c’è un conflitto» – spiega a nome del coordinamento, Kleber Karipuna – garimpeiros, madeireiros (industrie del legname) e ruralisti «leggono il suo discorso come un via libera a intervenire in ogni modo possibile per sfruttare il territorio, anche a uccidere, se necessario», ispirati come sono dalla ben nota passione presidenziale per le armi.

Esattamente ciò che sostiene il Cimi, il Consiglio indigenista missionario vincolato alla Conferenza dei vescovi, la cui difesa della foresta e dei suoi abitanti è non a caso motivo di grave preoccupazione per il governo in vista del Sinodo sull’Amazzonia del prossimo ottobre: «I discorsi aggressivi e pieni di odio di Bolsonaro e di altri rappresentanti del suo governo servono da combustibile per le invasioni, per il saccheggio territoriale e per le azioni violente contro i popoli originari».

E naturalmente, per la deforestazione, cresciuta nella prima metà di luglio, come denunciato dall’Inpe, l’Istituto nazionale di ricerca spaziale, addirittura del 68% rispetto all’intero mese di luglio 2018, con oltre mille chilometri quadrati di foresta andati perduti. Dati che il presidente ha aspramente contestato («sono convinto che siano falsi», ha detto), accusando il direttore del prestigioso organismo, Ricardo Magnus Osório Galvão, di lavorare «al servizio di qualche ong».

Claudia Fanti

da il manifesto

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