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Ancora e sempre contro l’ergastolo ostativo

La Grand Chambre della Corte europea per i diritti dell’uomo ha deciso di invitare l’Italia a modificare la legge che dispone l’ergastolo ostativo, quello, cioè, effettivamente senza fine, a meno che il recluso non decida di collaborare. In realtà la Grand Chambre ha ribadito quanto la Corte aveva già stabilito in una decisione del giugno scorso, contro cui il Governo italiano aveva presentato ricorso evidenziando, tra l’altro, la conformità della sanzione alla Costituzione italiana, stabilita nel 2003 da una decisione ‘tartufesca’ della Corte costituzionale, che grida vendetta per la sua inconsistenza argomentativa . In poche parole, secondo la Corte l’ammissione al beneficio è l’esito di una “libera scelta del condannato” di collaborare e quindi non viene in discussione l’art.27 co.3 Cost.; ma la Corte non tiene conto che questa libera scelta può essere condizionata dai possibili riflessi sui familiari e del fatto che chi sia innocente, eppur condannato, non abbia alcun modo di ‘collaborare’, a meno di inventarsi qualcosa.

Tre, invece, gli argomenti – di ben altra consistenza, civile e giuridica – alla base della decisione della Corte europea dei Diritti umani (Cedu): in primo luogo, il contrasto con il principio di difesa della dignità umana di una norma che non consente a chi sia privato della libertà di poterla, a determinate condizioni, riacquistare; quindi, l’inconsistenza della presunzione di pericolosità a fronte della mancata collaborazione, senza considerare i progressi del singolo sulla via della legalità; ed infine il dubbio forte sulla libertà della scelta, tenuto conto delle possibili gravi conseguenze nei confronti di terzi. Originariamente, a norma dell’art.4-bis ord. penit., non è consentita l’applicazione dei benefici penitenziari, tra cui la liberazione anticipata, per gli “irriducibili” di mafia e terrorismo, per il solo fatto della mancata “collaborazione”. Inoltre, l’art.41-bis ord. penit., per “gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica”, dà la facoltà di sospendere il trattamento rieducativo, ben oltre quanto richiesto da legittime esigenze di isolamento dall’esterno: il che altro non significa che l’adozione del carcere duro. Le due norme tracciano orientamenti rigoristico-deterrenti che poco hanno a che vedere con le disposizioni costituzionali in materia.

In generale, la via per ottenere i benefici per gli ergastolani è prevista valutando il percorso rieducativo e di reinserimento (formazione professionale, attività lavorativa e così via) a cui il recluso partecipa durante la permanenza in carcere. A questo punto non ha alcun fondamento razionale la presunzione assoluta secondo cui la mancata ‘collaborazione’ sia in ogni caso ascrivibile all’assenza di progressi nella direzione della rieducazione. D’altro canto, come fa notare la Cedu, punire la mancata ‘collaborazione’ non ha altro significato che effettuare violenza alla libertà morale del recluso, in palese violazione dell’art.3 Cedu, che vincola anche l’Italia: norma posta a presidio della dignità umana, di cui è componente essenziale la libertà morale. A ciò si aggiunga che l’art.27 co.3, oltre al basilare principio di rieducazione, nella prima parte sancisce solennemente il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità.

Si replica diffusamente, anche da parte di chi dovrebbe avere contezza di Costituzione e Convenzioni, che il superamento della micidiale combinazione normativa, che dà vita all’ ‘ergastolo ostativo duro’, sarebbe visto come un segnale di debolezza e pregiudicherebbe la lotta alle mafie, laddove la coazione a collaborare – in spregio alla normativa costituzionale e convenzionale vigente – rappresenterebbe uno strumento vincente.

Ma, a questo punto, visto che per esigenze di sicurezza o di ordine si possono impunemente violare norme fondamentali, viene da chiedersi perché non utilizzare mezzi più efficaci, più sbrigativi al fine di ‘ottimizzare’ le ‘collaborazioni’. Chi stabilisce qual è il limite della violazione della dignità umana? La verità è che lo stato di diritto non conosce eccezione alle regole che pone, pena la sua stessa credibilità. Insomma, si abbia il coraggio di abrogare l’art.27 co.3 e si rinunci alla Cedu, se si vogliono perseguire in materia penale prospettive diverse dallo stato di diritto.

Il sistema penale a fondamento costituzionale ha la finalità di assicurare il singolo e la pacifica coesistenza fra i consociati, ma non di adottare qualsiasi mezzo ritenuto idoneo al suo perseguimento, altrimenti verrebbe in discussione uno dei due compiti fondamentali: la tutela del singolo. In altri termini è consentito l’intervento penale, ma sempre nel rispetto assoluto di predeterminate garanzie, dettate dalla Costituzione e dalle Convenzioni.

Ciò di cui si discute non è la convenienza dello scopo, ma la conformità dei mezzi adoperati rispetto all’assetto fondamentale dell’ordinamento giuridico.
In questa prospettiva l’intervento penale si giustifica se riesce ad armonizzare la sua necessità per il bene della società con il diritto, anch’esso da garantire, del soggetto al rispetto dell’autonomia, dunque della libertà e della dignità della sua persona.

Sergio Moccia

da il manifesto

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