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«Al 41bis innocente e senza dignità Ora lo Stato mi deve risarcire»

La storia di Carmelo Gallico, figlio e fratello di boss, in cella per 2090 giorni e poi assolto

«La mia famiglia ha una storia, e il peso di quella storia lo porto ogni giorno sulle mie spalle, ma io non sono la storia della mia famiglia. La richiesta di risarcimento non l’ho presentata solo per me ma per far sì che si discuta di carcere, si capisca che occorre far qualcosa per migliorarlo»

Il tribunale civile di Brescia ha deciso che un ex detenuto dovrà essere risarcito dal ministero della Giustizia con oltre 14mila euro per la “detenzione contraria alla dignità” che ha subìto. È stato in carcere per 2090 giorni, 1754 dei quali trascorsi in custodia cautelare senza che poi venissero provate le accuse di mafia che gli erano state contestate dalla procura di Reggio Calabria e che sono cadute, con relativa scarcerazione, nel marzo del 2016 davanti alla Corte d’appello calabrese.

Carmelo Gallico, 54 anni, ha trascorso – per accuse di associazione mafiosa poi risultate infondate secondo la Cassazione – un lungo periodo di detenzione preventiva – la quasi totalità al regime duro del 41bis – tra le carceri di Brescia, Cuneo, Nuoro, Rebibbia a Roma, e in misura di sicurezza detentiva nella casa di lavoro di Favignana.

Il giudice civile Giuseppe Magnoli nelle sue motivazioni sottolinea che non è stata rispettata la legge penitenziaria del 1975, redatta per sorpassare quella fascista, con lo scopo di umanizzare la pena, in attuazione del principio dell’art.

27 della Costituzione che “stabilisce espressamente – scrive il giudice – che il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità, e deve assicurare il rispetto della dignità della persona’.

Per il legale di Gallico, l’avvocato Andrea Arcai: «La speranza è che questa sentenza non si limiti al risarcimento economico ma serva all’Italia a mettersi in regola come da tempo chiede l’Europa per le condizioni di vita nelle nostre carceri. Questa sentenza mi ha fatto particolarmente piacere perché purtroppo anche io in gioventù – ( nel gennaio del ‘ 77, l’anno del suo esame di maturità, Arcai fu arrestato per la strage di piazza Loggia) – fui implicato in un processo ingiustamente e da innocente restai tre mesi e mezzo in carcere».

Abbiamo raggiunto Carmelo Gallico al telefono nella sua casa di Palmi, in Calabria: qui è tornato per assistere l’anziana madre, mentre il resto della famiglia è in carcere. Da qui, in un regime di sorveglianza speciale, dà seguito al suo processo di riabilitazione, iniziato a Brescia, laureandosi in giurisprudenza, scrivendo libri premiati diverse volte.

Quali sono state nel dettaglio le condizioni di disumanità in cui è stato detenuto?

Al 41bis, regime molto afflittivo, vigeva uno stato di isolamento totale dai familiari e dagli altri detenuti. Ero chiuso in cella 22 ore da solo. E poi c’era l’obbligo del silenzio: non potevo parlare – al di fuori dell’ora di socialità – con i tre membri del mio gruppo scelti dalla direzione carceraria. L’uomo scompare e il detenuto arriva ad identificarsi con il numero della propria cella. Poi c’erano le gravi carenze strutturali: nella colonia penale di Favignana le celle erano sotto il livello del mare, senza finestre e sovraffollate, a Cuneo non funzionavano i riscaldamenti e mancava l’acqua calda, in Sardegna eravamo in 8 in una cella per 3 con un bagno a vista senza divisori né muri. Le condizioni erano davvero disumane.

Lei ha trovato nella scrittura una catarsi, un riscatto sociale che gli ha fruttato anche numerosi premi, tra cui il Bancarella 2002 e il Casalini 2016 con la sua autobiografia “Senza Scampo La mia vita rubata da faide e ‘ ndrangheta”. Alcuni suoi racconti sono stati messi in scena in uno spettacolo teatrale diretto da Emanuela Giordano.

La scrittura e i libri mi hanno permesso di non smarrirmi e di mantenere la lucidità durante la mia dura detenzione. Ho trasformato quello che ho vissuto in racconti. Mi sento la voce narrante del dolore di tutte quelle persone recluse che non hanno gli strumenti per farsi sentire, far conoscere le loro storie.

Cosa lo ha spinto a fare questo ricorso?

La richiesta per detenzione inumana si inserisce proprio in questo filone. Non l’ho fatto solo per me ma per far sì che si discuta di carcere, si capisca che occorre far qualcosa per migliorarlo. Io ho intrapreso questo percorso con l’associazione Carcere e Territorio di Brescia, presieduta dal professore Carlo Alberto Romano, e fondata da un magistrato di sorveglianza.

Alla fine degli anni 70 Palmi è stata il teatro di una sanguinosissima faida tra la sua famiglia e i Condello: oltre 60 i morti. Lei ha scritto più volte: “Sono nato libero e ho smesso di esserlo il giorno dopo. Non ho scelto in che famiglia nascere, ma ho potuto scegliere cosa diventare”.

La mia famiglia ha una storia, e il peso di quella storia lo porto ogni giorno sulle mie spalle, ma io non sono la storia della mia famiglia. Non sei tu che scegli la faida, è la faida che ti sceglie. Invece la scelta di appartenere a una associazione criminale è una scelta individuale. Con la mia presenza in Calabria vorrei dimostrare che si può vivere in un luogo come questo, col mio passato dietro, ma senza aderire a quella cultura, prospettando una alternativa a chi vorrebbe intraprendere la strada dell’illegalità o rinnegare questa terra. Io vorrei avere il diritto di amare la mia famiglia e separare il piano dell’affetto da quello che ogni individuo sceglie per la propria vita.

Lei fu arrestato la prima volta per aver coperto la latitanza nel bunker di casa vostra dei suoi fratelli. Oggi direbbe ad un ragazzo nelle sue stesse condizioni di denunciare?

Chiedere a un ragazzo di denunciare il padre o il fratello significa fare una violenza contro quel ragazzo. Il nostro codice non prevede il reato di favoreggiamento per il familiare che non denuncia. Ma la mia domanda era dal punto di vista morale e culturale. Per me, quello che gli altri vedono solo come un reo, rimane sempre mio fratello o mio padre. Poi ovviamente se quel familiare commette un reato sarà compito della giustizia fare il proprio corso e se ritenuto colpevole sconterà la pena. Non vorrei scomodare Antigone ma io mi riconosco spesso nella sua storia: mi sento spesso con quel travaglio interiore tra il dover scegliere tra la legge naturale che ti porta verso la tua famiglia e la legge imposta dall’uomo. Si tratta di un conflitto irrisolvibile.

Qual è quindi il suo impegno civile e sociale oggi?

Partecipo ad incontri nelle scuole e convegni per sensibilizzare sul tema del carcere. Oggi sono tornato in Calabria perché credo che il mio impegno sociale abbia una forza maggiore se condotto da questa terra, conosciuta soprattutto per la criminalità. Qui serve di più la sensibilizzazione sul carcere e su quello che può condurvi. La mia battaglia è anche quella personale di liberarmi per sempre dell’etichetta di mafiosità, è una battaglia di verità. E poi si può vivere in Calabria senza dover essere per forza un mafioso o con un destino già segnato. Ora attendo che si chiudano degli strascichi giudiziari per riprendermi con una piena assoluzione la mia libertà e dignità. Poi potrò pensare a fare causa per ingiusta detenzione.

Valentina Stella

da il dubbio

 

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