Le migrazioni forzate sono una conseguenza della globalizzazione, si può invertire la tendenza solo con un grande “Piano Marshall” per il sud del mondo. Il numero di persone che vivono in un paese diverso da quello di nascita continua a crescere: dai 76 milioni del 1965 siamo passati ai 132 milioni del 1998. Proviamo a descrivere i principali fattori degli attuali flussi migratori.
Alle origini della schiavitù del debito
L’aumento dei tassi d’interesse deciso dagli Stati Uniti a seguito della seconda crisi petrolifera (1979) mandò in rovina quasi tutti i paesi “in via di sviluppo”, che nei decenni precedenti avevano maturato un debito piuttosto ingente, come i paesi africani che subito dopo la conquista dell’indipendenza (anni ’50-’60) avevano chiesto prestiti per costruire infrastrutture e sistemi di welfare. Con l’aumento dei tassi gli importi da restituire ai creditori schizzarono alle stelle, mentre con l’affermarsi del neoliberismo si riducevano sensibilmente gli aiuti ufficiali allo sviluppo, considerati una deleteria forma di assistenzialismo. Per poter pagare gli interessi molti paesi ricorsero a nuovi prestiti, che le istituzioni finanziarie internazionali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) concessero in cambio dei famigerati “aggiustamenti strutturali”: privatizzazioni, liberalizzazioni, taglio della spesa pubblica. I già fragili sistemi di welfare furono rasi al suolo, con l’inevitabile conseguenza di una catastrofe umanitaria senza precedenti (in quegli anni esplodeva la pandemia di Aids). L’assenza dei servizi fondamentali, come l’acqua potabile, la sanità o l’istruzione, fa sì che oggi nei paesi poveri tre persone su quattro muoiano prima dei 50 anni. In Africa il 55% della popolazione femminile è analfabeta. Tra il 1970 e il 2012 l’ammontare complessivo del debito estero dei paesi africani e mediorientali si è moltiplicato per 73, ed è stata già pagata 145 volte la somma inizialmente dovuta. Nel 2012, i paesi poveri hanno pagato ai creditori 182 miliardi di dollari, a fronte dei 133 miliardi ricevuti come aiuto ufficiale allo sviluppo. Si calcola che dal 1980 in poi questi paesi abbiano versato nelle casse dei paesi ricchi una cifra non inferiore a 3.350 miliardi di dollari, il che equivale a circa 42 Piani Marshall. L’Italia nel 2009 ha contribuito agli Aiuti Ufficiali allo Sviluppo con appena 3 milioni di euro (lo 0,16% del Pil, penultimo posto tra i paesi dell’Ocse).
La distruzione delle attività produttive locali
A seguito della crisi finanziaria globale, tra il 2007 e il 2008 ci sono state diverse crisi alimentari, con un aumento di 40 milioni delle persone sottonutrite. La piccola agricoltura alimenta il 70% della popolazione mondiale e occupa molte più persone rispetto all’”agrobusiness”, ma i piccoli produttori locali vengono progressivamente espulsi dalle loro terre a vantaggio dei grandi proprietari o delle imprese multinazionali. I trattati di libero commercio favoriscono l’agricoltura protetta da sussidi dei paesi ricchi e mettono fuori mercato i produttori locali. In molte regioni la popolazione rurale viene scacciata con la violenza da paramilitari al servizio di latifondisti, stati stranieri o imprese multinazionali per appropriarsi delle loro terre e risorse naturali. Molte terre, spesso grazie alla corruzione di politici e amministratori locali, vengono acquistate da paesi ricchi (non solo Usa e Ue ma anche Arabia Saudita, Cina, Corea del Sud) che temono una futura scarsità di cibo e acqua. Spesso si tratta di investimenti speculativi e le terre vengono lasciate incolte, oppure vengono utilizzate per la produzione di alimenti destinati all’esportazione o di biocarburanti. I metodi di coltura intensiva riducono fortemente la fertilità del suolo e avvelenano l’ambiente con sostanze chimiche. Nel settore della pesca, i giganteschi pescherecci dei paesi ricchi che operano nelle acque internazionali fanno man bassa delle risorse e il pesce che rimane ai piccoli pescatori che lavorano sottocosta è sempre più scarso (a questo si collega anche il fenomeno della pirateria in alcuni paesi tra cui la Somalia).
Cambiamenti climatici
Secondo le Nazioni Unite, oggi le persone esposte al rischio di disastri ambientali nel mondo sono circa un miliardo. Molte di queste persone dovranno abbandonare le proprie terre e la maggior parte non potrà più fare ritorno nel luogo di origine. Già nel 2007-2008 i “profughi ambientali“ sono stati 70-80 milioni, ma nel 2050 potrebbero arrivare a 200-250 milioni. I paesi meno sviluppati sono ovviamente i meno responsabili per le emissioni di gas serra, ma ad essi appartiene il 90% delle persone colpite da disastri climatici nell’ultimo decennio.
Guerre
Nel 2013 il numero di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati interni in tutto il mondo è arrivato a 51,2 milioni di persone, ben sei milioni in più rispetto all’anno precedente. In Africa si è assistito a nuovi esodi forzati, in particolare nella Repubblica Centrafricana e nel Sudan del Sud, ma questo massiccio incremento è principalmente dovuto alla guerra in Siria, che alla fine del 2013 aveva già causato 2,5 milioni di rifugiati e 6,5 milioni di sfollati interni. Oltre la metà dei rifugiati a livello mondiale è costituita da siriani, afghani e somali. Come si vede, provengono da regioni interessate da interventi militari dell’Occidente (diretti o per procura) a fini di controllo delle risorse naturali. Alcuni di questi Stati sono stati trasformati in “failed states”, dominati dai signori della guerra e privi di qualsiasi capacità di provvedere ai più elementari bisogni dei loro cittadini.
Un dibattito insulso
Quanto sopra descritto non è certo una novità. Quello che sorprende è che, in questo incredibile paese, nell’attuale dibattito sull’immigrazione non ci sia traccia di queste considerazioni. Il dibattito si è incentrato sulla questione dei barconi come se fosse possibile impedire a centinaia di milioni di persone in lotta per la sopravvivenza di trasferirsi nei paesi ricchi solo rendendo difficoltoso il viaggio o arrestando chi si incarica di trasportarli. Chi dice “aiutiamoli a casa loro” dovrebbe considerare che il denaro inviato dai lavoratori emigrati ai familiari rimasti in patria oggi rappresenta un flusso finanziario imprescindibile per i paesi in via di sviluppo. Secondo i dati della Banca Mondiale, le rimesse ricevute nel 2013 ammontano a oltre 410 miliardi di dollari, circa tre volte il valore complessivo di aiuti concessi dagli stati occidentali. Vi sono paesi che dipendono in buona parte dalle rimesse: per il Tagikistan, ad esempio, rappresentano il 48% del Pil, per il Kirghizistan il 31%, per il Nepal e il Lesotho il 25%, per la Moldavia il 24%. Gli immigrati in Italia nel 2011 hanno inviato nei loro paesi 7 miliardi di euro, di cui dalla Toscana (2007) 868 milioni di euro. Sull’altro versante, solo degli ingenui possono pensare che la soluzione ai problemi dei paesi poveri possa essere l’apertura generalizzata delle frontiere, sostenendo di fatto la deportazione (più o meno coatta) di centinaia di milioni di persone sull’altro emisfero, una forma post-moderna di tratta degli schiavi che ha un impatto devastante sia sui paesi di provenienza che su quelli di accoglienza.
Quali soluzioni
C’è quindi una sola soluzione al problema delle migrazioni forzate ed è il capovolgimento delle politiche neoliberiste attuate negli ultimi trent’anni e un “piano Marshall” per il sud del mondo, a partire dalla cancellazione del debito. Questi investimenti creerebbero centinaia di migliaia di posti di lavoro sia nei paesi poveri che per i giovani dei paesi ricchi (tecnici, operatori sanitari, insegnanti…) nel settore della cooperazione. Restituendo la terra ai contadini (anche in Europa dove decine di migliaia di piccole imprese chiudono ogni anno), verrebbe garantita la sovranità alimentare e difesi gli ecosistemi dalla devastazione provocata dall’agrobusiness e dall’estrattivismo. Inoltre, avviando la transizione alle energie rinnovabili e abbandonando i combustibili fossili – il cui controllo è anche il movente principale degli interventi militari occidentali – si fermerebbe il cambiamento climatico. In questo modo nascerebbero anche nuove relazioni basate sulla solidarietà internazionale anziché sullo “scontro di civiltà”, sconfiggendo in una grande battaglia culturale i fanatismi politico-religiosi che si nutrono della frustrazione e della miseria. Le classi popolari del nord e i potenziali emigranti nei paesi poveri sono dunque sulla stessa barca (anzi, sullo stesso barcone): il dominio del capitalismo finanziario produce crisi, instabilità e disuguaglianza ovunque. E va abbattuto.
Nello Gradirà da senza soste
Pubblicato sul numero 104 dell’edizione cartacea di Senza Soste (uscito il 15 maggio 2015)
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