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Carceri: la denuncia di Giuseppe “picchiato dagli agenti… così ho combattuto per vivere”

I fatti risalgono al 12 gennaio del 2011, nel carcere di Lucera. Dopo un alterco con un agente, fu pestato senza pietà. Delle foto testimoniano i colpi subiti.

Denudato in cella di isolamento, in gergo “cella liscia”. Torturato fino allo svenimento da una squadra di agenti penitenziari per punirlo a causa di un’offesa verbale nei confronti dell’agente preposto. E poi trascinato per i piedi, nudo e ancora sporco di sangue, in un’altra cella di isolamento con dentro soltanto un materasso sudicio.

Accadeva il 12 gennaio del 2011, in pieno inverno. E la tragica storia di Giuseppe Rotundo, all’epoca dei fatti detenuto nel carcere di Lucera, nel foggiano. Il processo per ristabilire verità e giustizia, è ancora in corso. Il suo caso è unico nel suo genere perché, di solito, i corpi dei detenuti pieni di lividi ed ematomi vengono fotografati solo da morti. Giuseppe Rotundo invece è sopravvissuto alla tortura e ha potuto denunciare l’accaduto.

 

Giuseppe, nella Casa circondariale di Lucera era in attesa di giudizio o aveva una condanna definitiva?

Avevo una condanna definitiva. Un anno e dieci mesi per detenzione di dieci grammi di cocaina.

Qual era il clima in carcere?

Fin dall’inizio mi resi subito conto in quale clima autoritario mi trovassi. Già dal primo colloquio con la mia famiglia capii che la convivenza con gli agenti penitenziari non sarebbe stata facile. La mia famiglia, soprattutto mia figlia, andò via dal carcere sconvolta dall’arroganza e dalla prepotenza degli agenti.

Perché? Cosa accadde?

Durante il colloquio mia figlia fu rimproverata dall’agente perché voleva abbracciarmi. Io a quel punto ebbi un alterco con lui e il colloquio mi fu sospeso. Ero in regime normale, mica al 41bis dove è vietato qualsiasi contatto fisico con i famigliari. Non mi capivo perché me lo vietassero. Ma l’episodio che fece scattare il massacro fu un altro.

Quale?

Era il giorno in cui noi detenuti potevamo fare la telefonata ai nostri famigliari. Ero in sosta con altri detenuti sulla rampa di scale che conduce al corridoio dove si trovava la cabina telefonica. Considerando l’alto numero dei detenuti, l’attesa si prolungava e allora decisi di salire in sezione perché un mio compagno di cella aveva pronto il caffè. Il regolamento lo vieta, ma lo facevano tutti e a nessuno era mai stato contestato. Invece a me quel pomeriggio mi fu contestata l’infrazione del regolamento con toni violenti. L’agente mi intimò di posare il caffè, a quel punto preso dalla rabbia e lo insultai verbalmente. Ovviamente sapevo che avrei ricevuto una sanzione disciplinare, ma non mi sarei mai immaginato quello che mi è accaduto.

Cosa?

Appena conclusa la telefonata, stavo per raggiungere la mia sezione. Ma un agente mi bloccò e mi disse di seguirlo in ufficio per la contestazione del rapporto disciplinare. Entrai nell’ufficio e fui subito aggredito verbalmente dall’agente che avevo insultato. Chiesi scusa e gli dissi che aveva ragione e che quanto detto da me, non era un mio abituale comportamento. Non accettò le scuse e mi minacciò dì farmela pagare. Non capivo, io ero responsabile delle mie azioni e pronto ad accettare la sanzione disciplinare che ne scaturiva. Fui invitato a raggiungere l’ufficio di comando, ma prima dovetti passare in cella di isolamento per l’ispezione. Una volta entrato lì, compresi la loro intenzione.

Ovvero?

All’interno della cella era presente un gruppo consistente di agenti penitenziari con i guanti di lattice. Io li invitai alla calma, mi denudai spontaneamente per farmi perquisire. Ma una volta nudo fui colpito violentemente con un pugno alla nuca. A quel punto reagii di istinto e detti un pugno in viso all’agente che commise quel gesto, A quel punto fu il buio totale; ricevetti dagli agenti calci e pugni in tutto il corpo con una. violenza inaudita. Tanto da perdere quasi la coscienza e accovacciarmi per terra. Solo a quel punto smisero di picchiarmi.

Ha subito ricevuto un soccorso medico?

Assolutamente no. Mi presero per i piedi e mi trascinarono fin dentro la cella affianco e chiusero il blindato. Era una cella di isolamento, vuota e con un materasso lurido. Ero nudo e sporco di sangue. Rimasi la dentro in quelle condizioni per tutta la notte. Pensai alla mia famiglia, a mia figlia. Lottavo contro la morte perché non desideravo che venissero a trovarmi quando orami ero dentro una bara. La mattina seguente aprirono la cella perché in programma avevo un colloquio con la psicologa. Mi dettero degli indumenti, mi vestii da solo con fatica e poi, sorreggendomi in due, mi portarono fino all’ufficio della dottoressa. C’erano le dottoresse Natali e Vinciguerra, due psicologhe esterne del Ser.T.. La dottoressa Natali, alla vista delle mie condizioni, scoppiò a piangere: il giorno prima del massacro mi aveva visto in condizioni normali perché avevamo fatto un colloquio costruttivo di mezzora. Immediatamente gli agenti, vedendo che la Natali stava piangendo, sospesero il colloquio e mi condussero nuovamente in cella di isolamento.

Fino a quanto tempo ci rimase?

Se non fosse stato per l’interessamento della dottoressa Natali, forse sarei rimasto lì dentro per tantissimo tempo. La dottoressa, seppi dopo, subito si attivò chiamando la mia avvocata Elvia Beimonte. Ma non solo. Chiamò subito il comandante e lo minacciò di denunciarla per istigazione al suicidio se non avesse dato l’ordine di farmi uscire dall’isolamento e predisporre cure mediche, compresa la tac.

Il comandante accolse la richiesta?

Sì. Mi fece visitare e mi spostò in una sezione dove c’era una cella più confortevole con materasso. Soprattutto con il termosifone, considerando che stavamo in pieno inverno. Ebbi finalmente modo di riposare e avere contezza di quello che mi era accaduto. Gonfio come un pallone, completamente irriconoscibile. Un agente mi disse che il loro collega, da me colpito con il pugno, era finito in ospedale. Io, completamente all’oscuro della coraggiosa iniziativa della Natali, decisi di scrivere una lettera alla mia avvocata. Scrissi tutta la mia storia, soprattutto per il timore di passare per un aggressore, anziché per l’aggredito. Inoltre ebbi la lucidità di spedire la lettera tramite un compagno di sezione, poiché avevo il timore che, a mio nome, non sarebbe partita mai. Nel frattempo gli agenti mi denunciarono all’autorità giudiziaria.

Quindi inizialmente il processo era esclusivamente a suo carico?

Inizialmente sì. Poi il Pm De Luca, dopo la mia denuncia, ha ritenuto che ci fossero gli elementi necessari per un altro procedimento penale nei confronti degli agenti. Quindi i due procedimenti sono stati unificati. Il processo quindi è in corso e la prossima udienza ci sarà il due dicembre prossimo. Ma per concludere l’intervista mi faccia fare dei doverosi ringraziamenti.

Prego…

Innanzitutto ringrazio la dottoressa Natali per il suo coraggio. Senza di lei non so che fine avrei fatto. Ringrazio anche l’aiuto immenso di Antigone tramite Patrizio Gonnella e gli avvocati Simona Filippi e Alessandro De Federicis per essersi costituiti parte civile nel processo. Per concludere volevo dire che non provo odio nei confronti degli agenti. Ma tanta pena, rabbia e dolore.

Damiano Aliprandi da il Garantista

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