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Reato di tortura, se è così… meglio nessuna legge

Il G8 di Genova del 2001 fu un abisso di illegalità: in quei giorni l’abuso di potere era la regola, non l’eccezione. In quei giorni entrammo in un tunnel dal quale, a ben vedere, non siamo ancora usciti. Perché non abbiamo fatto davvero i conti con quella tragica vicenda. Non abbiamo tratto gli insegnamenti dovuti da quella terribile lezione.

Non ci sono stati cambiamenti veri, è mancato un ripudio da parte delle istituzioni di quei comportamenti, sono rimaste lettera morta le riforme necessarie per uscire a testa alta da quel tunnel di protervia e autoritarismo. E dire che sul piano giudiziario abbiamo ottenuto risultati senza precedenti, con un ampio riconoscimento delle verità raccontate da centinaia di cittadini e le condanne di decine di agenti, funzionari e altissimi dirigenti di polizia per le vicende Diaz, Bolzaneto e una lunga di serie di episodi avvenuti in piazza pestaggi, arresti arbitrari impropriamente definiti minori.

Ci sono almeno tre riforme essenziali che scaturiscono dall’esperienza genovese e che in un paese “normale” sarebbero già realtà. La prima: una legge ad hoc sulla tortura. La seconda, una rivoluzione nei criteri di formazione degli agenti e nei rapporti fra le forze dell’ordine e la società civile. Terza, l’obbligo per gli agenti in servizio di ordine pubblico di avere codici identificativi sulle divise. Voglio soffermarmi sul primo punto.

Ciò che intendiamo per tortura ha a che fare con il potere, ossia con l’abuso di potere. La tortura vìola i diritti fondamentali del cittadino nei suoi rapporti con le istituzioni. Si manifesta quando una persona è sottoposta a una limitazione della sua libertà personale ad opera del pubblico ufficiale. È una violenza, fisica o psicologica, che umilia chi la subisce ma anche chi la commette, perché lede gravemente la dignità e la credibilità dell’istituzione che rappresenta. È quindi una violazione della dignità di tutti i cittadini, e perciò ci indigna.

Ora, la legge approvata al Senato, su questo punto fondamentale, essenziale, irrinunciabile, è del tutto inaccettabile. Qualifica la tortura come reato comune, che può essere commesso da chiunque nella sua dimensione privata, nei rapporti con altre persone, e si limita a stabilire un’aggravante se quell’atto è commesso da un pubblico ufficiale.

La tortura non può essere un reato comune, se vogliamo che questa riforma sia uno strumento di ricostruzione di un’etica democratica all’interno delle forze dell’ordine. Sappiamo tutti che un testo di legge sulla tortura è appena stato approvato dal Senato e attende l’esame da parte dall’altra camera. C’è stata e c’è una pressione esterna per arrivare a una rapida approvazione della legge, in modo da rispettare l’impegno preso dall’Italia con le istituzioni internazionali oltre vent’anni fa.

Questo testo di legge, che è frutto di una mediazione più esterna che interna alle aule parlamentari, poiché recepisce una precisa richiesta arrivata dai vertici delle forze dell’ordine, qualifica la tortura come reato comune e non come reato specifico del pubblico ufficiale. Si discosta cioè dagli standard internazionali e anche dal buon senso.

Dev’essere chiaro che introdurre questa figura di reato nei codici serve principalmente a fini di prevenzione. Approvandola, il parlamento manda un chiaro messaggio alle forze dell’odine: dice che abusare dei detenuti, violare l’integrità di cittadini sottoposti a limitazioni legittime della libertà, è un’infamia insopportabile.

Dev’essere un messaggio forte e chiaro, visto che l’Italia in materia di abusi sui detenuti ha un curriculum preoccupante, prima e dopo Genova G8. Bolzaneto è stato la punta di un iceberg. Non può essere inviato un messaggio ambiguo, depotenziato nella sua portata. Sappiamo bene che i vertici delle forze dell’ordine, con il sostegno – purtroppo – dei sindacati di polizia, sono i principali avversari dell’introduzione del reato di tortura.

Hanno sempre interpretato questo progetto di riforma come un’onta, come un attacco all’affidabilità e alla credibilità delle forze dell’ordine. Finora sono riusciti a bloccare tutti i tentativi di approvare una legge. Ma l’inadempienza degli obblighi internazionali, dal punto di vista del parlamento, dev’essere superata, perciò durante ogni legislatura il tema è stato riproposto.

In questa legislatura il senatore Manconi ha presentato un testo di legge che ricalcava la formula standard prevista dalle Nazioni Unite, ma il testo è stato cambiato e stravolto nella discussione parlamentare e si è attestato sul piano B maturato in seno alle forze dell’ordine: il piano B è appunto il no assoluto alla qualificazione della tortura come reato del pubblico ufficiale.

Ho ben presente la discussione in corso, le posizioni assunte dal senatore Manconi e da altri soggetti che in questi anni si sono spesi su questo terreno: c’è una spinta affinché questa legge sia approvata comunque, in modo che la lacuna normativa sia colmata. Ho ben presente però anche un’altra riflessione, svolta in seno al nostro comitato, e attiene al senso del nostro lavoro nella società.

Che funzione hanno comitati come il nostro, composti da poche persone, vittime di abusi o familiari di persone ferite, umiliate, spesso uccise in stragi, attentati eccetera? Ebbene, la risposta che ci siamo dati è che questi comitati sono impor tanti perché hanno la vocazione a dire la verità. Possono dirla più e meglio di altri perché sono liberi da condizionamenti di qualsiasi tipo, non hanno ruoli politici da svolgere, né progetti di qualsivoglia natura da portare avanti. Si occupano di questioni specifiche e su quelle concentrano tutta la loro attenzione.

Allora la mia verità oggi è che questa legge sulla tortura è una legge sbagliata e non va approvata. Non sarebbe un passo avanti. L’Italia non è nelle condizioni di introdurre normative sulla tutela dei diritti fondamentali, specie con riguardo alla condotta e al funzionamento delle forze dell’ordine, che si pongano al di sotto degli standard internazionali. Le nostre forze dell’ordine non sono una casa di vetro, e dobbiamo aiutarle a diventarlo.

Le nostre forze dell’ordine non hanno bisogno d’essere blandite e assecondate nei loro meccanismi di chiusura verso il resto della società; devono essere aiutate ad aprirsi. Il reato di tortura, in ogni Paese democratico, è uno strumento formativo, un punto di riferimento morale per chi lavora nelle forze dell’ordine. Solo una mentalità distorta, una cultura democratica debole e involuta, può interpretare l’introduzione del reato di tortura come un attacco alle forze dell’ordine e alla loro credibilità.

Un motivo in più per avere una legge vera, all’altezza degli evidenti bisogni del nostro paese. Si dirà: ma una legge non perfetta è meglio di nessuna legge. Non credo che sia così. Stiamo parlando di un principio fondamentale che non può essere oggetto di trattative al ribasso. Il parlamento deve assumersi le sue responsabilità e applicare gli standard internazionali: la ricerca di una soluzione gradita ai vertici delle forze dell’ordine – attestati su posizioni retrograde e corporative, molto distanti dai valori democratici e costituzionali – non è su questo punto accettabile.

Meglio nessuna legge che una legge così, perché una volta approvata una nuova normativa, il discorso sarebbe chiuso definitivamente. Sarebbe un errore politico irrimediabile. E poiché l’introduzione del reato di tortura serve a prevenire gli abusi, meglio tenere aperta la discussione, rendere evidente il cedimento in corso, e rinunciare a questa corsa ad approvare una legge purchessia, come se si trattasse di segnare un punto in termini di produttività legislativa. Non è di questo che ha bisogno un Paese paurosamente incamminato sulla strada dell’autoritarismo.

Lorenzo Guadagnucci (Comitato Verità e Giustizia per Genova) da il manifesto

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