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Hotspot, Cie e Cara: dove soffrono gli immigrati

Le cooperative non garantiscono i servizi essenziali

Continui gesti di autolesionismo nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie) che ospitano – oltre la capienza disponibile – immigrati clandestini; giovani nati e cresciuti in Italia che sono stati chiusi in un Cie, poi liberati con una sentenza, perché i loro genitori “stranieri” avevano perso insieme al lavoro anche il permesso di soggiorno. Donne vittime di abusi sessuali o dell’ignobile tratta delle schiave, lavoratrici e lavoratori residenti in Italia da anni la cui unica colpa è stata quella di aver perso il proprio posto di lavoro e di non averne trovato un altro in tempo utile.

La cosiddetta detenzione amministrativa e il sistema ad essa annesso, risulta, inoltre, gestito da cooperative che non garantiscono i servizi essenziali. Il personale è poco qualificato e molto spesso non pagato con il risultato di far vivere in condizioni degradanti gli immigrati.

Questo è il quadro desolante descritto dall’ultimo rapporto redatto dalla campagna LasciateCIEntrare, nata nel 2011 per contrastare una circolare del ministero dell’Interno che vietava l’accesso agli organi di stampa nei Cie e nei C. a. r. a. (Centri di accoglienza per richiedenti asilo). Appellandosi al diritto/dovere di esercitare l’art. 21 della Costituzione, ovvero la libertà di stampa, LasciateCIEntrare ha ottenuto l’abrogazione della circolare e oggi si batte per la chiusura dei Cie, l’abolizione della detenzione amministrativa e la revisione delle politiche sull’immigrazione. Nonostante la possibilità di accedere, rimane ancora l’ostruzionismo. Le visite si sono ottenute grazie all’aiuto di alcune associazioni, parlamentari o personalità politiche. Riccardo Magi, ad esempio, segretario del Partito radicale, è riuscito a ottenere più volte il visto per visitare il Cie romano di Ponte Galeria.

Dopo lo scandalo della gestione degli appalti gestiti dalla Protezione civile che ha creato di fatto l’emergenza immigrazione, si era deciso di affidare alle prefetture la gestione dei Cie e dei Centri di accoglienza. In questo modo si è creduto di avere maggiore controllo, ma il dossier di LasciateCIEntrare riporta tre casi emblematici che smentiscono la cosiddetta soluzione emergenzialista.

Ne riportiamo uno e riguarda la provincia di Benevento dove è attiva la Cooperativa Maleventum che in questa zona gestisce ben 11 centri che accolgono i profughi, dislocati per lo più in luoghi isolati e con una media di circa 900 migranti. Da una visura ottenuta dagli attivisti di LasciateCIEntrare risulta che questa cooperativa abbia ricevuto tanti affidi diretti: Dugenta, Sant’Agata dei Goti, Montesarchio, Paolisi. Tutti centri in cui i servizi sono ridotti al minimo. Nel centro di Dugenta, ad esempio, sono 49 i migranti che non ricevono nessun tipo di servizio. La struttura, un casolare vecchio in cui sono stati collocati, è a due piani. Il piano terra era in passato un deposito. Vi sono due uniche finestre poste in alto e una porta a vetro; è diviso in due ambienti comunicanti senza porta: nel primo vi sono tre letti a castello, un tavolo quadrato di 30 cm ed un armadio; nel secondo due letti singoli e un letto a castello oltre ad un armadio. Quest’ultimo ambiente comunica con un corridoio che conduce ad un’altra stanza con altri 3 letti a castello. Il piano superiore è simile a quello inferiore. Per 10 persone vi sono due armadi (alti due metri e larghi 50 centimetri) che evidentemente non riescono a contenere gli indumenti dei migranti, che si trovano anche in scatoloni o appesi alle sbarre dei letti. Vi è un bagno per dieci persone, che qualcuno viene a pulire una volta alla settimana. Da quando sono nel centro non hanno mai avuto un cambio di lenzuola. Esiste un’unica cucina per i 49 ospiti. Il dossier riporta anche una testimonianza: “Il cibo fornito e cucinato in struttura è scadente e spesso lo gettiamo. Ognuno di noi si compra da mangiare con i soldi che ci danno mensilmente. Parliamo di 75 euro a testa. Con questi stessi soldi acquistiamo indumenti e schede telefoniche e ci siamo comprati i telefonini. All’arrivo non abbiamo ricevuto nulla. Per andare a Napoli o Benevento non ci danno nessun biglietto e spesso partiamo senza e i controllori ci fanno scendere al primo controllo”. Da oltre un anno nella struttura, non hanno mai avuto possibilità di intraprendere un corso di italiano. Diversi migranti sono analfabeti in madrelingua. Non esiste nessuna figura di mediazione. La maggior parte dei richiedenti asilo racconta di aver già fatto l’audizione presso la commissione territoriale di Caserta e di aver ricevuto tutti dinieghi. Prima della commissione non hanno avuto nessun contatto con legali od operatori che gli spiegassero qualcosa riguardo il percorso intrapreso come richiedenti asilo. Ricevuto il diniego loro stessi hanno cercato un legale, che hanno poi pagato di tasca propria. I migranti non hanno contatti con la popolazione locale. Qualche volta vengono prelevati per lavori nei campi limitrofi che “gli fruttano circa 15 euro al giorno”. Durante la giornata non è prevista alcuna attività. Nessuno ha loro spiegato cosa avviene durante il ricorso in tribunale.

I nuovi Hotspots – centri di contenimento e di selezione dei migranti appena arrivati in Italia – risultano luoghi privi di uno status giuridico certo, nei quali si realizzano forme diverse di limitazione della libertà personale, dove c’è il rilevamento forzato delle impronte digitali. Delle vere e proprie carceri in miniatura.

La questione è stata sollevata anche da un’interrogazione presentata in Parlamento dal senatore Luigi Manconi, che, nel chiedere chiarimenti al governo su queste violazioni, ha ricordato l’articolo 13 della Costituzione, secondo cui “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità e urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto”.

Gli Hotspot sono il fulcro della nuova strategia dell’Unione europea per fronteggiare l’emergenza immigrazione. Si tratta di strutture già esistenti, ma ampliate. In teoria, dovrebbero funzionare trattenendo i migranti fino all’identificazione rapida – entro 48 ore dall’arrivo, prorogabili a 72 – e alla registrazione, prendendo anche le impronte digitali. Sono strutture che funzionano da filtro: vengono selezionati solamente i richiedenti asilo e rimpatriati gli immigrati giunti nel Paese per motivi economici.

Il dossier di LasciatCIEntrare denuncia un grave problema di discriminazione: si garantisce la possibilità di accesso a forme di protezione solo a coloro che provengono da paesi i cui profughi sono almeno nel 75% dei casi considerati aventi diritto. Significa che gran parte dei paesi, tutt’ora in guerra o in situazione politica, economica o ambientale critica, saranno considerati paesi sicuri in cui poter rimpatriare con la forza gli immigrati. Procedure rigide, coercitive e discriminanti. E in questo caso ce lo chiede anche l’Europa.

Damiano Aliprandi da il dubbio

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